Fu vera gloria? Com'è effimera la stima del mondo
Il tema della fama effimera è affrontato nel canto XI del Purgatorio, nella balza dei superbi, dove il Sommo Poeta incontra dapprima Omberto degli Aldobrandeschi. Per ascoltarlo Dante abbassa il viso. A questo punto un’altra anima si torce sotto il peso del macigno. E' Oderisi da Gubbio.
Nel canto XVII del Paradiso, di fronte al trisavolo Cacciaguida, Dante esprimerà la paura di perdere l’ospitalità presso i signorotti dell’epoca nel caso in cui racconti tutto quello che ha visto nel viaggio nell’Oltremondo. Cacciaguida, però, lo riconfermerà nel suo compito di «allontanare gli uomini dalla condizione di miseria/peccato/infelicità e accompagnarli alla situazione di felicità/beatitudine» (come il poeta scrive nella Epistola a Cangrande della Scala inviatagli assieme al Paradiso).
Dante ha pensato a sé e a coloro che avrebbero chiamato il suo tempo antico, i posteri. Dante non ha avuto paura dell’esilio, della solitudine, ha avuto solo timore di non raccontare la verità e di perdere la gloria presso coloro che avrebbero chiamato antico il suo tempo, cioè noi. Noi siamo certi che la verità si affermerà («fin che l'ha vinto il ver con più persone», Purgatorio XXVI). Il sigillo della verità è, infatti, la durata nel tempo, perché solo ciò che è vero persiste. Dante è, però, cosciente della durata effimera della fama a cui lui tanto aspira.
Proprio questo tema è affrontato nel canto XI del Purgatorio, nella balza dei superbi, dove il Sommo Poeta ha incontrato dapprima Omberto degli Aldobrandeschi. Per ascoltarlo Dante abbassa il viso. A questo punto un’altra anima si torce sotto il peso del macigno e riconosce il poeta. Pieno di stupore, il poeta esclama: «Oh! […] non se’ tu Oderisi,/ l’onor d’Agobbio e l’onor di quell'arte/ ch’alluminar chiamata è in Parisi?». Oderisi da Gubbio era un grande miniaturista del XIII secolo. In vita, preso dalla superbia e dal desiderio di eccellenza, non avrebbe mai riconosciuto la superiorità degli altri artisti. Ora che si sta purificando, può con libertà e serenità riconoscere la grandezza altrui: «Più ridon le carte/ che pennelleggia Franco Bolognese;/ l'onore è tutto or suo, e mio in parte/ Ben non sare' io stato sì cortese/ mentre ch'io vissi, per lo gran disio/ de l'eccellenza ove mio core intese».
Bologna era un importante centro universitario nel Duecento in cui sorsero molte avanguardie artistiche: lì nacque il padre del Dolce stil novo, quel Guido Guinizzelli che Dante collocherà tra i lussuriosi in Purgatorio, lì nacque il miniaturista Franco (chiamato appunto Bolognese ovvero da Bologna) che dipingeva con una tecnica più dinamica, vivace, colorita e svolazzante rispetto a Oderisi, rendendo così le miniature più «ridenti» (belle). Oderisi da Gubbio rappresenta, quindi, la tradizionale tendenza bizantina nella miniatura, mentre Franco Bolognese l’ondata di innovazione goticizzante. Interessante è scoprire che le uniche notizie che ci sono giunte su questo grande miniaturista che ha superato Oderisi provengono dai versi danteschi. Nessun’altra testimonianza ci documenta la sua vita e la sua fama.
Dante pone in bocca a Oderisi le sue riflessioni relative alla vanità dell’umana gloria, cui pur il poeta aveva sempre ambito in vita. Questo è il suo ragionamento. La fama in Terra dura per pochi anni salvo nel caso in cui un artista di valore non sia vissuto in un’epoca cui segue un altro periodo di decadenza. Ma gli artisti che hanno prodotto le loro opere in momenti di splendore culturale rapidamente sono superati da altri più grandi, spesso i loro discepoli. Ecco alcuni esempi. Cimabue (1240 - ca 1302) venne superato dal discepolo Giotto (1265 o 1266 - 1337), grande genio della pittura conterraneo e coetaneo di Dante che ha rivoluzionato la pittura tra Duecento e Trecento. Pensiamo che due grandi geni come Dante e Giotto sono nati nello stesso anno (o comunque a pochi mesi di distanza) e nella stessa città! Ormai pochi parlano di Cimabue perché la sua fama è stata oscurata da Giotto.
Così Guido Guinizzelli è stato superato da un altro Guido, il Cavalcanti, nato cinque anni prima di Dante, suo grande amico (il maggiore per quanto scrive Dante nella Vita nova), «e forse è nato/ chi l'uno e l'altro caccerà del nido». Questi versi sono geniali e sono stati, penso, sottovalutati dalla critica. Ovviamente, tutti hanno identificato in Dante questo personaggio che supererà gli altri due e tutti i critici hanno sottolineato qui la superbia di Dante. Io credo che il poeta abbia, in realtà, compiuto con poche parole il massimo atto di umiltà e di purificazione concepibile: di fronte ai miliardi di lettori che nei secoli successivi avrebbero letto e studiato la sua opera, in maniera pubblica lo scrittore ha additato sé come superbo, volutamente e spontaneamente. Non c’è studente che all’ascolto di questi versi non abbia un risentimento di fronte al Fiorentino, provando un certo fastidio per il suo vanto. Ma Dante, di proposito, proprio nel canto dei superbi, si batte il petto e di fronte non solo ai suoi contemporanei, ma anche a tutti i posteri professa la sua colpa. Quest’atto, credo, gli sarà valso a sconto dei peccati.
Che cos’è la fama sulla Terra, si chiede Oderisi da Gubbio, ora che può vedere la vita e la realtà in maniera certa e con serenità d’animo? È un «mondan rumore», un rumore (non suono, senza comunicazione) del mondo, che assume i nomi mutevoli e diversi di quei personaggi che diventano importanti, ma la cui fama in realtà è come il soffio di vento, che muta nome perché muta il punto da cui spira (rosa dei venti). Tra mille anni che fama rimarrà di noi sulla Terra se moriremo da bambini o da anziani? Che cosa conterà davvero? L’unica cosa che davvero conterà sarà il conseguimento del vero premio che è l’eternità. Con il personaggio di Oderisi da Gubbio Dante ci presenta così la superbia per l’arte, in un certo senso l’ambito che permette di conseguire la fama più importante secondo lui, come vedremo meglio nell’episodio dell’incontro con Stazio (Purgatorio XXI).
Oderisi indica, infine, dinanzi a sé il rappresentante della superbia nell’ambito politico. Per esemplificare come la fama duri spesso lo spazio di pochi anni il miniaturista mostra a Dante un’anima che cammina poco davanti a lui e che era notissima all’epoca della battaglia di Montaperti (1260), mentre ora (1300) è pressoché sconosciuta tanto che a Siena (città di cui si sentiva padrone) appena se ne bisbiglia. Dante mostra di non sapere di chi si stia parlando. Nella finzione letteraria sono passati solo quarant’anni dalla battaglia di Montaperti che vide contrapposti guelfi (in gran parte fiorentini) e ghibellini (soprattutto senesi). Nato nel 1220, ghibellino, Provenzano dei Salvani era uno degli artefici della vittoria di Siena su Firenze. Superbo, negli anni successivi pensò di poter spadroneggiare su Siena con spirito di boria e di superiorità e per questo ora espia questa colpa («Quelli è […] Provenzan Salvani;/ ed è qui perché fu presuntüoso/ a recar Siena tutta a le sue mani./ Ito è così e va, sanza riposo,/ poi che morì; cotal moneta rende/ a sodisfar chi è di là troppo oso»).
La sconfitta dei ghibellini a Benevento nel 1266 avvia il declino della sua figura fino alla morte che avviene nella battaglia di Colle Val d’Elsa nel giugno del 1269, dove i Senesi sono sconfitti dai Fiorentini. Ivi, la sua testa mozzata viene esposta su una lancia e fatta sfilare dinanzi a tutti. La fama non è solo come il vento, ma può essere paragonata anche al colore dell’erba, che dura lo spazio di pochi giorni e che ha vita proprio grazie a quel sole che poi la trascolora. La fama non è merito nostro, ma deriva da Dio. Recita il salmo 114: «Non a noi, Signore, non a noi,/ ma al tuo nome da' gloria,/ per la tua fedeltà, per la tua grazia».
Oderisi da Gubbio conclude poi il suo discorso. Se Provenzano dei Salvani, così superbo, non è nell’antipurgatorio, pur essendosi pentito all’ultimo momento, accade per un grande gesto di umiltà che compì pubblicamente in piazza del Campo a Siena dove rimase notte e giorno a chiedere l’elemosina, proprio quando aveva maggior fama, per pagare il riscatto di un amico fatto prigioniero da Re Carlo d’Angiò a Napoli.