Francia, Stati Uniti e la tolleranza per gli jihadisti
Lo stragista del Museo Ebraico di Bruxelles era un cittadino francese appena uscito dalle patrie galere e "formatosi" alla jihad in Siria. Negli Usa, intanto, Obama libera 5 terroristi talebani in cambio del militare Bergdahl rapito nel 2009.
Lo jihadismo è un materiale ideologico e umano che va maneggiato e disinnescato con cura. I governi francese e statunitense hanno dimostrato ancora una volta, in simultanea, di non saperlo trattare. Alla fine di maggio, infatti, la Francia ha fatto l’ultima tragica scoperta del suo errore: l’attentatore del Museo Ebraico di Bruxelles sarebbe un cittadino francese, Mehdi Nemmouche, di origine magrebina e islamico radicale, ex carcerato pluri-recidivo (ben 7 condanne a suo carico) e con più di un anno di esperienza militare nella guerriglia siriana, inquadrato nell’Esercito Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil). In Francia è stato arrestato a Marsiglia, ma non dai servizi segreti o su loro segnalazione, bensì in un normale controllo alla dogana. Contemporaneamente, per decisione del presidente statunitense Barack Obama, sono stati liberati dal super-carcere di Guantanamo ben 5 terroristi talebani, ora trasferiti nel Qatar, in cambio della liberazione del prigioniero americano Bowe Bergdahl, che era nelle mani del talebani in Afghanistan dal 2009.
La sottovalutazione del pericolo jihadista in Francia è ancor più sorprendente se si considera che sono passati appena due anni e due mesi dalla strage alla scuola ebraica di Tolosa, commessa da Mohammed Merah, anch’egli cittadino francese, anch’egli pregiudicato, eppure capace di trascorrere un periodo di “formazione” in Afghanistan per poi tornare in patria per compiere il suo progetto terroristico. Nemmouche, così come Merah, si è avvicinato all’islam radicale mentre era detenuto in un carcere francese. Era un piccolo criminale fino al 2007. Quando è uscito di prigione, all’inizio di dicembre del 2012, era un potenziale terrorista e guerrigliero. Nemmeno tre settimane dopo la sua liberazione, era subito in rotta per la Siria, dove si è arruolato nelle file dell’Isil, il più radicale e violento fra i movimenti ribelli. Vuol dire che, in carcere, ha ottenuto contatti e istruzioni sufficientemente precise per andare in Medio Oriente, contattare la gente giusta e diventare un guerrigliero armato: non una cosa che si possa improvvisare in tre settimane di riacquisita libertà.
Nemmouche, stando alle notizie ufficiali francesi, aveva fatto perdere le sue tracce una volta in Medio Oriente, è tornato dopo un lungo e tortuoso viaggio, intrapreso apposta per far perdere le tracce, attraverso Turchia, Tailandia, Singapore, per ricomparire in Germania, dove è stato segnalato a Parigi dalle locali autorità di frontiera. Nonostante tutto è entrato in Belgio e sarebbe proprio lui, stando alla sua stessa rivendicazione (filmata con una piccola videocamera sportiva) l’uomo che ha assassinato a freddo due turisti israeliani, un impiegato belga e una donna francese, lasciando una quinta vittima in fin di vita al Museo Ebraico.
Sorprende la lentezza delle reazioni istituzionali francesi di fronte alla minaccia costituita da 700 concittadini jihadisti (secondo il censimento del governo) andati a combattere in Siria o in procinto di farlo. Solo alla fine di aprile il Ministero dell’Interno ha attivato un numero verde, a disposizione di genitori, parenti e amici che sospettano che un loro caro sia diventato un fanatico e sia in procinto di partire per la guerra santa. Solo all’indomani della cattura di Nemmouche, la polizia ha messo le mani su altri 12 sospetti jihadisti. Era successo anche dopo l’assedio alla casa di Merah: a scoppio ritardato si scoprono i covi e si eseguono le retate massicce, ma intanto il danno (l’attentato) è già fatto. La maldicenza corre in fretta sul Web e già alcuni indignati lettori di Le Figaro pensano che il terrorista (ancora presunto) fosse protetto dai servizi segreti di Parigi. È un sospetto duro da dimostrare, ma ancor più duro a morire. Era una voce che circolava anche per Merah: che fosse un infiltrato dei servizi segreti su cui, poi, era stato perso il controllo. Il percorso di Nemmouche è molto simile: piccola criminalità, carcere, “palestra” nella guerriglia mediorientale e ritorno in Europa da terrorista ormai formato. È proprio la facilità di passaggio dalle patrie galere ai campi della guerra santa a destare sospetti. E in entrambi i casi, sia quello di Merah che di Nemmouche, i servizi segreti non sono riusciti (davvero?) a tracciare i loro movimenti.
Se in Francia un terrorista potenziale è stato sottovalutato, negli Usa, al contrario, i cinque talebani scarcerati in questi giorni sono terroristi conclamati. «Sono i più irriducibili fra gli irriducibili» come li definisce il senatore repubblicano John McCain, fra le proteste dell’opposizione. «Queste (che abbiamo liberato, ndr) sono le persone a più alto rischio in assoluto. Altri che abbiamo rilasciato in passato sono tornati subito a combattere». Il Qatar, dove i cinque talebani si trovano attualmente, ha promesso agli Stati Uniti di tenerli sotto stretta sorveglianza e senza permesso di espatrio per un anno. Poi? Probabilmente li si vedrà ricomparire in Afghanistan, oppure nella guerriglia in Siria, alimentata da fondi, armi e volontari … del Qatar.
Tutti negli Usa, dall’estrema destra all’estrema sinistra, desideravano il ritorno di Bergdahl: dopo cinque anni di prigionia nelle mani dei talebani in Afghanistan la sua salute era in pericolo. L’opposizione repubblicana, però, ha concrete ragioni per essere infuriata: le modalità dello scambio sono illegali. Barack Obama avrebbe dovuto chiedere il permesso al Congresso prima di autorizzare uno scambio di prigionieri, per di più con un movimento terrorista con cui è ufficialmente in guerra. Obama, al contrario, si è giustificato citando l’urgenza delle circostanze (la salute deteriorata del prigioniero) e il coinvolgimento nel negoziato di un Paese terzo, il Qatar. Si tratta di giustificazioni fragili, da un punto di vista legale, che non porranno fine alla polemica. Dietro a questa fretta, oltre alla volontà di riportare a casa un proprio cittadino, si possono celare ben altri interessi: un accordo con i Talebani per permettere un ritiro pacifico delle truppe statunitensi, un favore fatto al Qatar che è alleato degli Usa nella guerriglia contro Assad in Siria. In ogni caso si tratta di un precedente pericoloso che gli Usa, d’ora in avanti, rischiano di pagare caro. Proprio nel bel mezzo del disimpegno statunitense dall’Afghanistan, i Talebani (che celebrano lo scambio di prigionieri come una delle loro più grandi vittorie) sanno che rapire soldati statunitensi è un affare estremamente redditizio. Si attendono prossimi sequestri.
Le due vicende, quella francese e quella americana, paiono avere poco o nulla in comune. Invece riflettono lo stesso problema: l’incapacità di considerare la Jihad islamica come un nemico e l’ostinazione di considerare gli jihadisti di Al Qaeda e loro alleati alla stregua di singoli criminali, al massimo come “teste calde” con cui è sempre possibile scendere a patti. Sono visti dai governi occidentali come problemi di ordine pubblico al massimo, ma non agenti di un nemico armato, organizzato e determinato a combattere una guerra contro i nostri Paesi. Un nemico che non ha mai accettato alcun compromesso, che non si è mai fatto corrompere, che non sa nemmeno che cosa voglia dire un “negoziato”, se non come un espediente provvisorio per riprendere fiato e combatterci meglio.