Fra India e Pakistan la crisi militare ignorata dal mondo
Un sanguinoso attentato islamico nella località di vacanza di Pahalgam (26 indiani morti) ha innescato una improvvisa crisi militare fra India e Pakistan. Entrambe sono potenze nucleari.

L’India potrebbe lanciare un’offensiva militare entro le prossime 24 ore. Questo è quanto dichiarato ieri dal ministro dell’Informazione del Pakistan, Attaullah Tarar, al culmine della nuova crisi militare fra i due paesi, iniziata con un sanguinoso attentato terroristico islamico nel Kashmir.
La crisi sembra segnalare la vigilia di un conflitto su larga scala. Nell’ultima settimana si sono registrati almeno 13 incidenti militari, con scambio di colpi d’arma da fuoco leggere lungo tutto il confine del Kashmir. Ieri l’India ha chiuso il suo spazio aereo a tutti i voli pakistani e ha stabilito delle zone di interdizione marittime, al largo delle sue coste occidentali, visto che il Pakistan sta conducendo le sue esercitazioni navali presso il confine marittimo.
Come si è arrivati sino a questo punto? La causa scatenante è l’attentato di Pahalgam, una località turistica dell’Himalaya, nella regione contesa del Kashmir, avvenuto il 22 aprile. Presso la cittadina, in una località di montagna non raggiungibile con autoveicoli, un commando di terroristi ha attaccato un gruppo di turisti indiani. Secondo i testimoni oculari, gli jihadisti hanno separato i musulmani dagli induisti e ucciso solo questi ultimi. I morti sono 26, i feriti almeno il doppio.
Si tratta del più grave attentato islamico contro civili indiani negli ultimi anni, ma non è un fatto isolato. Nella parte indiana del Kashmir, il terrorismo islamico e indipendentista colpisce tutti gli anni. L’episodio più grave era avvenuto nel 2019: 46 soldati uccisi in un attacco suicida, a cui l’India aveva risposto con raid aerei in territorio pakistano. L’anno scorso, un bus di pellegrini induisti era stato attaccato a colpi di mitra e il veicolo era precipitato in una scarpata: 9 i morti.
Dopo la strage di turisti a Pahalgam, nessuna sigla ha rivendicato. Le autorità indiane hanno interrogato 1500 persone e individuato almeno quattro sospetti membri del commando. Di questi, due sono di nazionalità pakistana. Il governo Modi è sicuro che dietro questo attacco vi sia la mano del Pakistan e sta minacciando rappresaglie. Il Pakistan, che aveva espresso formalmente le sue condoglianze per le vittime indiane, il giorno stesso dell’attentato, nega ogni responsabilità e denuncia la volontà di Modi di cercare un pretesto falso per attaccare il Pakistan.
Da allora, appunto, gli incidenti militari si sono moltiplicati, la frontiera, lo spazio aereo e le acque territoriali sono chiusi. La diplomazia internazionale è al lavoro, anche se l’opinione pubblica è molto distratta. Dagli Usa, il Dipartimento di Stato afferma di lavorare “a tutti i livelli” di contatti sia con il Pakistan che con l’India, per evitare il peggio. Gli Usa sono alleati del Pakistan e Modi è in ottimi rapporti con Donald Trump. La diplomazia americana è stata fondamentale per evitare un conflitto nel 2008 (allora il premier indiano era Manmoan Singh e il presidente Usa George W. Bush) a seguito del massacro jihadista a Mumbai, con 166 morti. Tuttavia, Modi è molto più nazionalista di Singh. E la popolazione indiana è stanca di dover subire uno stillicidio di attentati islamici. Una reazione militare è dunque più probabile.
Nella peggiore delle ipotesi, l’India potrebbe lanciare un attacco di terra contro il Pakistan, nel Kashmir e altrove lungo la frontiera nordoccidentale. La dottrina indiana, da vent’anni, è quella di un “inizio a freddo”: poca o nessuna mobilitazione e un attacco a sorpresa attraverso la frontiera, con forze corazzate, in modo da raggiungere il prima possibile obiettivi strategici in profondità nel Pakistan e dettare condizioni di pace. Il problema è che, nello stesso periodo, per rispondere alla nuova dottrina indiana, il Pakistan ha potenziato il suo arsenale nucleare tattico ed ha abbassato l’asticella dell’impiego di armi atomiche sul campo. Il Pakistan ha poca profondità strategica e se gli indiani dovessero sfondare e penetrare nel paese, la tentazione di fermarli con un lancio di armi nucleari tattiche sarebbe molto forte. Mentre l'India, da quando è diventata una potenza nucleare, dalla fine degli anni 90, ha mantenuto una dottrina di "secondo colpo" (può essere autorizzato l'uso di testate nucleari solo per rispondere a un attacco nucleare), il Pakistan ha adottato una dottrina di "primo colpo": può rispondere col nucleare anche a un attacco convenzionale, se lo ritiene necessario.
Per gettare ulteriore benzina sul fuoco, il 27 aprile il governo pakistano ha lanciato un avvertimento pesante. Non il ministro della Difesa, ma quello dei Trasporti (dunque meno autorevole in materia, ma non contraddetto dai colleghi), ha dichiarato infatti, «Le attrezzature militari e i missili in nostro possesso non sono solo per fare bella mostra. Nessuno sa dove abbiamo collocato le nostre armi nucleari nel Paese. Lo ripeto, questi missili balistici sono tutti puntati contro di voi».