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"Fondi avvoltoi" e "carogne argentine"

L'Argentina ha fatto bancarotta, per la seconda volta in meno di tre lustri. Non è riuscita a onorare i suoi impegni con grandi fondi di investimento americani, che non sono scesi a compromessi sui loro crediti. E allora si pone il dilemma su chi abbia torto. Per l'economista Alejandro Chafuen (argentino) la colpa è di Buenos Aires.

Economia 02_08_2014
"Giù gli artigli dall'Argentina!"

L’Argentina, per alcuni politici e commentatori italiani, come Beppe Grillo, Renato Brunetta, Paolo Barnard, l’economista Alberto Bagnai e persino per due premi Nobel quali Joseph Stiglitz e Paul Krugman, era un “modello” da seguire, soprattutto per i Paesi in crisi dell’Europa mediterranea. Non solo per le innegabili affinità culturali con Spagna e Italia, ma anche per il modo con cui aveva reagito alla crisi del 2001 e 2002. Invece di rimanere vincolata al cambio fisso con il dollaro, Buenos Aires aveva sganciato il peso e lo aveva svalutato, con politiche monetarie espansive. In questo modo aveva favorito la circolazione della moneta, la spesa pubblica sociale e il credito, a favore di una rapida ricrescita (che, per un certo periodo, ha funzionato). La svalutazione aveva anche, chiaramente, svalutato il debito pubblico. In due differenti occasioni, il debito è stato “ristrutturato”. Detto in parole povere, il governo argentino si è accordato con i suoi creditori per ridurre quanto dovuto. In questo modo il debito pubblico si era dimezzato nel corso di un decennio. Tuttavia è proprio qui che si è inceppato il meccanismo, perché non tutti i creditori hanno accettato di perdere quanto avevano investito in Argentina. Una piccola minoranza di essi, il 7% del totale, ha rifiutato. Fra questa minoranza di creditori, figurano soprattutto i grandi fondi di investimento americani Nml e Aurelius Capital non sono stati al gioco e hanno fatto causa. E hanno vinto. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato loro ragione. L’Argentina, con buona pace della sua vantata ripresa, non è stata in grado di far fronte ai suoi impegni e ha fatto tecnicamente default, bancarotta. Ed è la seconda volta in 12 anni. Ora, quel che si teme è un effetto a catena: gli altri creditori potrebbero farsi avanti. L’impatto sociale sull’Argentina, appena uscita dalla crisi, potrebbe essere devastante.

Questo è l’antefatto di una vicenda che presenta un dilemma morale notevole. L’Argentina non si è dimostrata quel modello di ripresa, senza neppure lacrime e sangue, che molti speravano che fosse. Era una ripresa “dai piedi d’argilla” evidentemente. Alla prima difficoltà si è rivelata illusoria. Ma di chi è la colpa? Il governo di Buenos Aires si difende aggredendo (almeno verbalmente) la decisione della Corte Suprema americana e i fondi di investimento, chiamati “avvoltoi” perché investono sui debiti dei paesi fragili e prossimi al default. Ormai l’espressione “fondi avvoltoio” è entrata nell’uso comune anche qui in Italia come sinonimo di capitalismo rapace. I creditori sono accusati di esosità eccessiva, perché hanno acquistato i buoni del tesoro argentini quando costavano pochissimo, in piena crisi, e ora chiedono di riavere il 1300% del loro valore iniziale (stando ai dati ufficiali forniti dall’Argentina). Inoltre costituiscono solo il 7% dei creditori, il che vuol dire che il 93% ha accettato le condizioni di rientro. Tuttavia, è l’Argentina che non ha rispettato condizioni liberamente pattuite. E non ripagare un debito è un’altra forma di furto, per di più commesso da un’élite di governo ai danni di un intero popolo. Dunque anche Buenos Aires, soprattutto la “presidenta” Cristina Kirchner, si trovano in una posizione a dir poco moralmente discutibile. Se arrivano i fondi “avvoltoi” è perché, per terra c’è quella “carogna” del governo di Buenos Aires.

In questa situazione i vescovi argentini sono abbastanza prudenti. Monsignor Jorge Lorenzo, presidente della Commissione Pastorale Sociale Argentina, ha dichiarato a Vatican Insider: «Bisogna aspettare perché ancora non si sa come evolverà la situazione. La cosa importante per noi è che l’eventuale default non abbia ripercussioni sull’occupazione e sulla gente, in particolare le fasce più vulnerabili della popolazione, come del resto avevamo già espresso nell’ultima Conferenza Episcopale (avvenuta lo scorso 24 giugno ndr)». Tuttavia, i vescovi si sono schierati al fianco del governo di Buenos Aires al momento della sentenza della Corte americana. In quell’occasione hanno espresso una chiara condanna a “un’economia basata solo sulla speculazione finanziaria” e a favore di una soluzione negoziata con i creditori.

Papa Francesco, che era arcivescovo di Buenos Aires fino al 2013, non ha preso una posizione ufficiale. Come sempre, in questi casi, è il governo di Buenos Aires che cerca di “tirarlo per la giacchetta” per fargli benedire la propria linea politica. Per quanto riguarda la visione e le preoccupazioni di papa Bergoglio, l'ambasciatore argentino presso la Santa Sede, Juan Pablo Cafiero, ricorda il suo «importante pensiero sul potere immenso che ha il settore finanziario sull'economia reale e sul settore del lavoro». E dunque, sempre secondo l'ambasciatore, il Papa «è vicino alla posizione che ha adottato il governo di Buenos Aires». Il pensiero del Pontefice rappresenta secondo Cafiero «una sfida a come il settore finanziario possa pregiudicare e impedire lo sviluppo dell'economia e soprattutto le possibilità di lavoro per la gente».

Tuttavia non si può inscatolare la crisi argentina nello schema buoni/cattivi: il buon governo di Buenos Aires che difende i poveri e gli oppressi, contro i cattivi fondi speculativi che vogliono la gente morta per le strade. Se il governo argentino fosse stato realmente “buono” non avrebbe avuto problemi a pagare i suoi debiti. Se non li paga, a perderci sono i fondi di investimento. Ma non dobbiamo pensare a questi ultimi come a pochi voraci capitalisti, col sigaro in bocca e il cilindro in testa, come da iconografia marxista. I fondi convogliano i risparmi di decine, centinaia di migliaia, addirittura milioni di persone comuni: pensionati, impiegati, negozianti, piccoli risparmiatori, che rischiano di perdere i loro soldi, come ai tempi della crisi dei "tango bond" nei primi anni 2000. Non pagando, o pagando meno, il governo argentino colpirebbe tutti loro. Se il 100% dei creditori avesse accettato compromessi, il messaggio lanciato non sarebbe comunque stato gratificante per nessuno: perché condonare i debiti a loro e non a noi? O ai Paesi africani? Che senso hanno, a questo punto, le regole dello scambio se il debitore non onora i suoi impegni e resta impunito?

Buenos Aires, dopo aver attaccato a testa bassa l’Fmi (a causa delle sue critiche sulla gestione economica argentina), ora aggredisce verbalmente, con un fiume di retorica anche la Corte Suprema, accusata di aver fatto gli interessi dei fondi speculativi, a loro volta protetti dal governo americano. Ma in questo modo, la Kirchner dimostra di non avere idea di come funzioni una giustizia indipendente, che emette una sentenza su una causa di alcuni privati contro un governo. Lo constata, per primo, un economista cattolico, argentino e statunitense d’adozione, quale Alejandro A. Chafuen, che presiede il think tank Atlas Foundation. «Il continio sforzo del governo argentino di lottare contro la sentenza – scrive nel suo editoriale sulla rivista Forbes di inizio luglio – è basato sulla mancanza di comprensione di come funziona un tribunale indipendente. La stessa nozione di una magistratura indipendente che limita il potere di un governo è ancora più rara in Argentina. Nel World Rule of Law Index (indice mondiale dello stato di diritto, ndr), l’Argentina ha preso un infimo punteggio dello 0,35 su 1 nella categoria “limite del governo posto dalla magistratura”. Nel corso della sua storia, i governi argenti presieduti prima da Nestor e poi da Cristina Kirchner, hanno considerato il sistema giudiziario come un potere subordinato agli interessi del governo. Ciò considerato, è abbastanza naturale che pensino che il tribunale statunitense funzioni allo stesso modo. I membri del governo argentino e i negoziatori non capiscono che i tribunali statunitensi sono ancora indipendenti».

Chafuen, che conosce bene la sua gente, ritiene anche che il governo di Buenos Aires dia una visione distorta della crisi economica e delle sue cause: «può anche dipingere i fondi di investimento come degli avvoltoi avidi, ma ben pochi al mondo possono considerarsi meno voraci delle autorità argentine. Hanno agito come se l’uso di un potere arbitrario consentisse loro di proseguire con le loro pratiche, nella totale impunità. Sono i poveri dell’Argentina che hanno pagato il prezzo delle politiche dei loro governi, gli stessi che hanno ridotto il paese agli ultimi posti nelle classifiche del rispetto delle leggi».