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Venerdì della Bussola

Foibe, una memoria ancora scomoda

In che contesto storico si collocano le foibe? Com’è nato il Giorno del Ricordo e quanto è stato difficile istituirlo? Cosa fare per non ripetere gli errori del passato? I temi del videoincontro di Stefano Magni con Ruben Razzante, figlio di un profugo istriano, e l’ex ministro Carlo Giovanardi.

Attualità 15_02_2025

Commemorare le vittime e conoscere quanto è avvenuto, per non commettere gli stessi errori del passato e superare certe divisioni che accompagnano ancora oggi il Giorno del Ricordo e le vicende ad esso collegate. È in questo solco che si è tenuto il Venerdì della Bussola trasmesso ieri e intitolato Foibe, una memoria ancora scomoda. Un videoincontro incentrato appunto sulla tragica stagione dei massacri delle foibe, perpetrati tra il 1943 e il 1945 dai partigiani comunisti agli ordini di Josip Broz Tito (1892-1980).

A condurre la trasmissione Stefano Magni, che ha avuto come ospiti il professor Ruben Razzante, noto collaboratore della Bussola e figlio di un profugo istriano, e l’ex parlamentare Carlo Giovanardi, che da ministro per i Rapporti con il Parlamento si adoperò per l’istituzione del Giorno del Ricordo, avvenuta 21 anni fa, con la legge 92/2004.

Un Giorno che si celebra il 10 febbraio perché fu in quella data, nel 1947, che venne firmato il Trattato di Parigi tra l’Italia e gli Alleati, con cui il nostro Paese tra l’altro cedeva alla Jugoslavia l’Istria e la Dalmazia. Dal 10 febbraio 1947 – come ha ricordato Magni in apertura fornendo il contesto storico di quegli anni – per circa 350.000 italiani sfumarono le speranze di tornare a vivere in quelle terre da cui erano dovuti fuggire, tra il ‘43 e il ‘45, a causa delle persecuzioni ad opera dei titini, che presero di mira diverse “classi” di nemici, dai borghesi ai sacerdoti, dai funzionari fascisti ai semplici cittadini italiani. Le foibe, crepacci tipici del Carso e dell’Istria in cui venivano gettate le vittime (di solito, per la gran parte ancora vive, legate le une alle altre), furono solo il simbolo più noto degli eccidi operati dai partigiani di Tito, in cui persero la vita migliaia di nostri connazionali.

Da qui, dunque, l’importanza del Giorno del Ricordo, che tuttavia, come ha detto Razzante (intervistato di giovedì) «è solo un punto di partenza per realizzare una rivisitazione storica completa di una pagina buia per lungo tempo trascurata ed emarginata nelle ricostruzioni storiche e che è giusto che le nuove generazioni conoscano». Secondo Razzante, prima del 2004, da parte del giornalismo italiano c’è stata «una colpevole sottovalutazione» di questa pagina tragica. Riguardo poi alla recrudescenza dell’odio verso le vittime delle foibe e che quest’anno si è espressa in alcuni atti vandalici, tra cui quello contro la Foiba di Basovizza, il docente di deontologia giornalistica esorta i media a condannare episodi simili «però senza esacerbare gli animi». Anche fuori dall’Italia persistono delle crisi sul tema: si pensi alla contestazione che i socialisti croati e sloveni hanno rivolto alla mostra sulle foibe all’Europarlamento. Per Razzante, questo è un segno che «ci sono ancora delle resistenze culturali di un certo mondo che non ha mai condannato fino in fondo il regime di Tito» e vive con disagio iniziative del genere.

A domanda di Magni su come sia nato il Giorno del Ricordo e quanto sia stato difficile istituirlo, Giovanardi ha richiamato le figure di Guido Brazzoduro (1938-2023), originario di Fiume, e Lucio Toth (1934-2017), originario di Zara, presidenti di associazioni di esuli che si batterono insieme all’allora ministro per giungere al riconoscimento poi formalizzato dalla legge 92/2004. L’ex deputato e senatore ha accennato anche ai complessi motivi storici che stanno dietro la lenta presa di consapevolezza su questo dramma. «Bisogna ricordare che le vicende del dopoguerra fecero di un massacratore come Tito una persona che l’Occidente in qualche modo riconosceva perché, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, Tito, rompendo con la Russia, era diventato una specie di barriera che difendeva l’Occidente e anche l’Italia da Stalin, quindi da un male anche maggiore». Il fanatismo di Tito faceva migliaia di vittime sia tra gli italiani che tra i croati, serbi e sloveni non comunisti. E ancora si inseriva nel contesto storico successivo all’annessione della Slovenia meridionale all’Italia fascista. Insomma, una vicenda che ricorda quanto male facciano le ideologie, di qualunque colore.

È dunque necessario continuare a fare passi verso una pacificazione solida e duratura. In questo senso, Giovanardi indica come esemplare la scena del presidente italiano Sergio Mattarella che cammina a braccetto con la presidente slovena Nataša Pirc Musar, durante la cerimonia di inaugurazione di Gorizia-Nova Gorica “Prima Capitale europea della cultura transfrontaliera”, e insieme attraversano una piazza per decenni divisa dal filo spinato. Una cerimonia che è il contraltare dei vandalismi, in casa nostra, di cui sopra e che avrebbe meritato maggiore attenzione mediatica.

L’ex ministro ha quindi richiamato l’intento alla base dell’istituzione del Giorno del Ricordo, ossia apprendere dal passato, fare in modo di non ripeterne gli errori e valorizzare la presenza degli italiani che sono rimasti in Istria e Dalmazia. «Io per esempio sostengo che tutte le associazioni degli esuli non dovrebbero fare i loro convegni in Italia, ma a casa loro, a Fiume, a Zara, a Rovigno, a Spalato, perché siamo tutti in Europa e quindi queste città sono città europee, dove io sono a casa mia, come un croato e uno sloveno è a casa a Roma».

Bisogna dunque superare le contrapposizioni precedenti, favorendo la collaborazione e l’amicizia tra gli Stati, anche con piccoli gesti e iniziative, di cui Giovanardi porta altri esempi. Al tempo stesso, bisogna isolare «quelli che ancora ragionano come i comunisti di Tito o ragionano come i fascisti che dicono: “l’Istria e la Dalmazia sono nostre”». Un messaggio che va trasmesso chiaramente anche alle nuove generazioni, perché non si facciano sedurre da ideologie vecchie e nuove e siano consapevoli dei danni fatti da entrambi i totalitarismi del Novecento.

Al riguardo, Giovanardi insiste sull’importanza delle associazioni degli esuli giuliano-dalmati in Italia che «vanno nelle scuole» a spiegare come sono andate le cose.