Foibe, il film verità che non fa notizia
Per il Giorno del Ricordo, dedicato alle vittime delle foibe, la Cineteca di Milano ha messo a disposizione un film straordinario, Il segreto della miniera. Si tratta di un film sloveno della regista Hanna Antonina Wojcik-Slak e tratta dello spaventoso misfatto delle foibe da un punto di vista diverso. Infatti, non furono solo italiani a finire nelle maglie della pulizia etnica, ma anche i «traditori» dei nuovi padroni comunisti, a qualunque nazionalità appartenessero.
Per il Giorno del Ricordo, dedicato alle vittime delle foibe, la Cineteca di Milano ha messo a disposizione un film straordinario, Il segreto della miniera. Si tratta di un film sloveno della regista Hanna Antonina Wojcik-Slak e tratta dello spaventoso misfatto delle foibe da un punto di vista diverso. Infatti, non furono solo italiani a finire nelle maglie della pulizia etnica, ma anche i «traditori» dei nuovi padroni comunisti, a qualunque nazionalità appartenessero.
Il film, del 2019, narra la vicenda di Alja, un bosniaco che, bambino, ha dovuto mettersi in salvo dalle guerre balcaniche seguite alla dissoluzione della Jugoslavia e durate dieci anni (1991-2001). Alja si è rifugiato in Slovenia, dove è cresciuto. Qui ha appreso, col tempo, che il suo villaggio natale non esiste più: tutti sterminati. Ha trovato lavoro come minatore, si è sposato ed ha due figli. Non teme nemmeno la crisi economica che sta facendo chiudere le miniere: è bravo, esperto e di tutta fiducia.
Tale è infatti la stima che la direzione ha nei suoi confronti da incaricare proprio lui di ispezionare una miniera da tempo in disuso e stendere un rapporto sulla sua inutilità, rapporto da presentare alla burocrazia per il nulla-osta ufficiale. Alja, però, viene mandato solo, ufficialmente per risparmiare sui costi. Ma lui, minatore di lungo corso, si insospettisce. Va, comunque, e provvede. Ed ecco che, in fondo a un cunicolo secondario, trova un muro di mattoni. Che ci fa un muro di mattoni in un pozzo minerario? Di sua iniziativa sfonda il muro e trova scheletri.
E qui comincia il suo calvario. Correttamente, avvisa la direzione di quel che ha rinvenuto, ma subito di muri ne trova un altro, e questo è di gomma. Non solo. Arrivano le telefonate minatorie, avvertimenti a lui e alla sua famiglia: stia lontano da quella miniera. Ma Alja non demorde e chiama la polizia. Solo che la polizia finisce con l’arrestare lui. Liberato dopo umiliazioni, conosce un vecchio che da sempre abita vicino alla miniera. In realtà, apprende, ci abita da quando, bambino, seppe che suo padre era finito proprio in quella miniera.
Ricorda ancora l’arrivo di decine di camion carichi di gente. Quattromila persone, donne e bambini compresi. Portati nella miniera e murati vivi. «Traditori». Alja allora scava ancora nel cunicolo, fotografa tutto e coinvolge la stampa. Ormai non si può più nascondere la realtà. O forse sì? Sì, invece: la versione ufficiale diventa che si tratta di una «tomba di guerra» di prigionieri nazisti, civili non ce ne sono. Le lunghe trecce di capelli femminili e le calzature infantili trovate da Alja vengono bruciati, lui è licenziato e la sua famiglia ridotta alla fame.
Il muro di mattoni nella miniera viene ricostruito, la miniera viene sigillata. Perché? Il film non spiega niente, lascia le conclusioni allo spettatore. In effetti, sollevare un pandemonio in un piccolo Paese che sta cercando di farsi ammettere nell’«Europa» e che sta ancora leccandosi le ferite per una guerra balcanica che è stata di tutti contro tutti non si sa se sia cosa conveniente.
Ai piani alti e nel deep state forse non è il momento di riaprire armadi di ottant’anni fa. Pur nel Giorno del Ricordo, per certi posti, al contrario, forse è meglio dimenticare. Ma Alja è un uomo semplice. E onesto. Per lui ogni morto dovrebbe avere una sepoltura, ed è questo che cocciutamente persegue incurante dei rischi. Ovviamente, la sua ostinazione lo porta alla rovina. Mentre con i suoi sale su un treno che lo porterà chissà dove, l’unica soddisfazione di tutta questa vicenda è la stretta di mano che il capostazione, riconosciutolo dalla tivù, gli chiede.