Finisce l'agonia di Alitalia, ma continueremo a pagarla
Dopo 70 anni e 13 miliardi spesi Alitalia chiude i battenti. I fallimenti dei governi degli ultimi 30 anni che si sono tutti schiantati sulla compagnia di bandiera, le mancate fusioni, i salvataggi disperati dove a pagare sono sempre stati i contribuenti. Che non smetteranno di pagare dato che abbiamo ancora il nodo esuberi da gestire con nuovi esborsi da parte dello Stato.
Tredici miliardi di euro, dei quali 1,4 negli ultimi quattro anni. Tanto è costata Alitalia agli italiani. Dopo 75 anni di alti e bassi, più bassi che alti, la compagnia di bandiera italiana chiude i battenti. Ieri sera il decollo dell’ultimo volo AZ1586 da Cagliari a Roma Fiumicino, poi la fine di una storia che negli ultimi anni è diventata davvero tragicomica. Neppure il marchio Alitalia tira più di tanto, se è vero che la recente asta per aggiudicarselo a 290 milioni di euro è andata deserta. D’altronde, era difficile prevedere un lieto fine per una mal gestita azienda di Stato, che muore tra polemiche e veleni, per lasciare il campo alla nuova Ita.
Si può dire che l’agonia vera e propria della compagnia di bandiera è iniziata negli anni novanta, con la liberalizzazione del trasporto aereo e l’apertura del mercato alle compagnie low cost, con l’aumento della concorrenza sulle rotte a breve percorrenza. Ma questo, lungi dal rappresentare un alibi per chi l’ha gestita, rappresenta un’aggravante. Una governance lungimirante e accorta avrebbe dovuto impedire che la vita di Alitalia fosse costellata di insuccessi, sprechi, salvataggi di Stato. Personale pletorico, cattiva gestione dei conti, stipendi da capogiro per i dipendenti ed emolumenti faraonici per manager e dirigenti: tutto questo c’è stato negli ultimi trent’anni e si sarebbe potuto evitare, respingendo, fin dall’inizio, i ricatti dei sindacati e combattendo la demagogia dei politici di turno. E’ stata una grave ingiustizia sociale quella di far pagare le perdite di Alitalia a milioni di cittadini che non hanno mai preso un aereo in vita loro e che hanno comunque dovuto sborsare, sotto forma di tasse e rincari, cifre spropositate per risanare sistematicamente i bilanci in rosso della compagnia. E le colpe sono di scelte industriali sbagliate e di una politica miope e incosciente, che ha sempre guardato ad Alitalia come a un serbatoio elettorale e a un terreno di lottizzazioni strumentali all’acquisizione del consenso.
Eppure si sarebbe potuto evitare questo disastro già negli anni novanta. Alitalia, nel 1997, avrebbe potuto ottimizzare il rapporto con Klm, compagnia olandese forte nelle tratte a lunga percorrenza e quindi pienamente compatibile con la posizione di forza di Alitalia nel corto raggio. Senza contare che quattro anni prima, nel 1993, sindacati e politica avevano fatto tramontare l’ipotesi di fusione con i francesi (Air France).
E anche i governi Berlusconi ci hanno messo del loro, in particolare nel 2008, quando il Cavaliere preferì i “capitani coraggiosi” ai francesi, impiccandosi al concetto di salvaguardia dell’italianità della compagnia, che si rivelerà foriero di rovinose perdite e di un costante declino. In altri termini quei patrioti così tanto osannati da Berlusconi sarebbero poi diventati i commissari liquidatori di una compagnia che muore oggi ma era tecnicamente fallita già vent’anni fa.
Nella ricostruzione dell’infinito disastro di Alitalia c’è gloria (si fa per dire) anche per Matteo Renzi, che nel 2014, per l’ennesimo salvataggio della compagnia, imbarca anche Poste Italiane e individua negli arabi di Etihad i partner per la nuova avventura societaria. Alitalia, targata Etihad, diventa Sai, Società aerea italiana. Decolla il primo gennaio del 2015. Alitalia continua a registrare perdite: un buco nero nei conti, provocato da una emorragia da due milioni al giorno, che crea forti tensioni tra le banche azioniste ed Etihad.
Nel 2017 arriva una nuova impasse. Si tenta il tutto per tutto con una nuova operazione di salvataggio, che prevede una ricapitalizzazione e un accordo con i sindacati, poi bocciato da un referendum ad aprile. Il 2 maggio Alitalia Sai viene messa in amministrazione straordinaria. Si parla di una fase transitoria di pochi mesi mentre si avvia la vendita della compagnia. Si affaccia Lufthansa ma fa paura il suo piano di tagli e l’ipotesi tedesca tramonta. Nel 2018 prende corpo un’operazione di sistema con la regia delle Fs, con la partecipazione di Atlantia e un partner internazionale, Delta, che però non intende andare oltre il 10%. Lo stallo si prolunga a causa della pandemia, che affossa definitivamente ogni ipotesi di rilancio della compagnia, vista la paralisi pressochè globale del traffico aereo. Il governo giallorosso Conte bis imprime una sterzata. Con il decreto Cura Italia, viene costituita una nuova compagnia sotto l’ala pubblica, Ita. Ma per partire Ita deve avere disco verde da Bruxelles. E la Ue, che chiede discontinuità tra le compagnie, dà il suo benestare solo a luglio di quest’anno.
Da oggi Ita è operativa, ma le ferite non sono affatto rimarginate. La nuova compagnia parte con 52 aerei e 2.800 dipendenti e per ora solo con il ramo 'aviation'. I rami di manutenzione e dell'handling di Alitalia, infatti, saranno messi a gara in tempi successivi dall'amministrazione straordinaria. Il futuro della compagnia è nell’integrazione con grandi gruppi a condizione di pari dignità con gli altri membri dell'alleanza, così assicurano i nuovi vertici. Il numero dei dipendenti dovrebbe raggiungere, a fine piano, nel 2025, 5.550-5.700 persone. All’avvio delle attività, la compagnia servirà 45 destinazioni con 61 rotte che saliranno a 74 destinazioni e 89 rotte nel 2025.
Ma nel frattempo c’è il nodo esuberi. Oltre 5.000 dipendenti della ormai vecchia Alitalia chiedono la cassa integrazione fino al 2025 e un accompagnamento morbido alla pensione, con conseguenti nuovi esborsi da parte dello Stato. Facile prevedere, quindi, nuovi stanziamenti per impedire scioperi e proteste, con conseguenti blocchi del traffico aereo. Altri soldi pubblici al vento. Nuovo nome, vecchi problemi. Ita decolla tra mille incognite e con il fondato sospetto che a pagare per tutti questi disastri gestionali (sperando che siano terminati) saranno ancora una volta gli incolpevoli contribuenti.