Fine della Primavera di Praga, il '68 più incompreso
Nella notte tra il 20 e il 21 di agosto 1968, il “fraterno aiuto” sovietico, a Praga, arrivò dal cielo. I primi reparti di truppe aviotrasportate invasero l’aeroporto della capitale dell’allora Cecoslovacchia comunista. Finiva nel sangue la Primavera di Praga, il tentativo del comunismo di acquisire un "volto umano". Destinato a fallire sin da subito.
Nella notte tra il 20 e il 21 di agosto 1968, il “fraterno aiuto” sovietico, a Praga, arrivò dal cielo. I primi reparti di truppe aviotrasportate invasero l’aeroporto della capitale dell’allora Cecoslovacchia comunista. Uno dietro l’altro, gli Antonov dell’aviazione sovietica sbarcarono uomini e mezzi corazzati, mentre i Mig da caccia sfrecciavano a bassa quota, per intimidire la popolazione. Contemporaneamente, alle frontiere, le truppe del Patto di Varsavia entravano nel paese, da tutte le direzioni, senza incontrare alcuna resistenza. L’esercito cecoslovacco aveva avuto ordine di non reagire. Finiva così, con un blitz militare, l’esperienza della Primavera di Praga, l’aspetto meno ricordato e certamente meno compreso del 1968, di cui si celebra oggi il 50mo anniversario.
La Primavera di Praga tentò di creare un comunismo diverso, meno repressivo, “dal volto umano”, come lo definiva allora il suo attuatore, il segretario del Partito Alexander Dubcek. La sua ascesa al potere avvenne col pieno appoggio sovietico. Nel 1967, dieci anni dopo la cosiddetta “destalinizzazione”, iniziarono le prime contestazioni al regime. Il motore furono gli intellettuali dell’Unione degli Scrittori. Nel loro congresso, che si tenne nel giugno del 1967, denunciarono la deriva antisemita della classe dirigente comunista. Israele aveva appena vinto la Guerra dei Sei Giorni e i partiti comunisti, su ordine di Mosca, avevano appoggiato gli arabi, dopo decenni di simpatia per lo Stato ebraico. Gli intellettuali non sempre avevano accettato ciecamente questa svolta. Ma il segretario di allora, Antonin Novotny, si era limitato ad espellerli dal Partito e a vietare le loro pubblicazioni. Il dissenso si era esteso anche alle università, ma anche qui le prime contestazioni erano state represse con la forza. Contemporaneamente, gli stessi economisti del partito lanciavano l’allarme: la stagnazione stava diventando recessione. Il sistema economico socialista reale non dava alcun incentivo alla produzione, la pianificazione non raggiungeva i suoi risultati, il mercato nero era in espansione. A dicembre la situazione di crisi era lampante. Era chiaro anche a Mosca dove Breznev era il primo a incoraggiare l’ascesa del segretario del partito slovacco Dubcek. La sua non fu una facile presa del potere. Fino a quel momento era stato fedelissimo al partito. Era sfuggito alle purghe staliniane (al processo Slansky, tanto per dir la peggiore) e aveva fatto carriera sotto Novotny. A Mosca lo consideravano un fedelissimo. Il segretario in carica, comunque, tentò anche un colpo di Stato per cercare di frenarne l’ascesa, ma l’esercito si schierò dalla parte del nuovo astro nascente. E fra il gennaio e il marzo del 1968, Dubcek e la sua corrente di riformatori presero stabilmente il potere. Il processo venne completato il 30 marzo, con l’ascesa alla presidenza della repubblica del generale Svoboda, caduto in disgrazia nei primi anni ’50 e al momento uno dei riformatori più in vista.
In che cosa consistevano le riforme? Il Partito si riprometteva di governare “non con metodi burocratici e polizieschi”, ma con “la forza delle idee del marxismo leninismo”, come cercò di spiegare Dubcek alla “casa madre” moscovita quando la crisi era ormai irreversibile. Nei primi intenti, a marzo, la nuova classe dirigente spiegò che “chi non appartiene al partito non deve sentirsi privato dei suoi diritti”. Il sistema non venne mai messo in discussione. Ma già dalla prima settimana di marzo, venne rimossa la censura e reintrodotta una certa libertà di espressione. Bastò questo spiraglio per scatenare un turbinio di contestazioni contro il Partito e il regime comunista. Il “Manifesto delle duemila parole”, redatto da un gruppo di intellettuali riunitosi attorno allo scrittore Ludvik Vaculik, si scagliò contro la dirigenza comunista e il declino materiale e umano che aveva provocato nel paese. Inizialmente firmato da 70 accademici, in breve venne sottoscritto da 100mila cittadini, nonostante i rischi che correvano. Benché non fosse un manifesto contro il comunismo, ma solo contro i comunisti fino ad allora al potere, venne inteso come un atto di sfida e condannato dal governo. Fu la dimostrazione lampante della contraddizione insanabile interna al “socialismo dal volto umano”: liberazione sì, ma non si tollerava il dissenso aperto al regime del Partito unico.
La Chiesa provò subito a riprendere la sua libertà. Il 12 marzo 1968, una settimana dopo l’abolizione della censura, l’episcopato, su pressione di seminaristi e fedeli, destituì l’abate Plohjar dalla sua carica nel “Movimento della pace del clero cattolico”, fedele al regime. Il Movimento venne da subito ristrutturato e rinominato “Opera del rinnovamento post-conciliare”, sotto il controllo dei vescovi. I delegati degli ordini religiosi, sciolti nel 1950 (due anni dopo la presa del potere dei comunisti) chiesero al nuovo governo di riprendere l’attività. Venne chiesta anche la scarcerazione dei sacerdoti arrestati per motivi religiosi e monsignor Tomashek, amministratore dell’arcivescovado di Praga, caldeggiò la loro piena riabilitazione. I vescovi già liberati dal carcere ebbero la possibilità di rientrare nelle loro diocesi. Il caso di monsignor Josef Beran, eroe della resistenza anti-nazista perseguitato dai comunisti fin dal 1948 per la sua ferma opposizione al regime, rimase in sospeso. Il cardinale, in esilio a Roma dal 1963, non poté rientrare in Cecoslovacchia.
Religione, cultura, musica, turismo… tutto stava ricominciando a vivere senza più il controllo ossessivo del Partito. A Mosca si resero ben presto conto che le riforme di Dubcek avevano aperto un Vaso di Pandora. Il primo avvertimento venne ad aprile, quando furono concordate le manovre del Patto di Varsavia. L’esercito sovietico rimase in territorio cecoslovacco fino a giugno inoltrato, un mese in più rispetto al previsto. Il 14 luglio, a Varsavia, i dirigenti delle nazioni del blocco comunista denunciarono “la ripresa aggressiva delle attività delle forze imperialiste” in Cecoslovacchia. Il movimento intellettuale indipendente, la rinnovata attività della Chiesa, persino i turisti tedeschi occidentali (i cui visti erano stati liberalizzati per quell’estate) erano denunciati dalla stampa sovietica come agenti dell’imperialismo. La goccia che fece traboccare il vaso, fu la visita a Praga prima di Tito (dal 9 all’11 agosto), poi di Ceausascu (il 15 agosto), i dittatori non allineati, a capo di Jugoslavia e Romania. A Mosca temettero la nascita di un blocco alternativo al loro e optarono per la soluzione di forza. Il 20 agosto si mossero le truppe di cinque nazioni del Patto di Varsavia per porre fine al “socialismo dal volto umano” e ripristinare quello “reale”, con un processo di dura repressione che venne eufemisticamente ribattezzata “normalizzazione”.
A cinquant’anni di distanza, i comunisti odierni amano ricordare la Primavera di Praga come un tentativo, tradito e interrotto, di edificare un modello socialista di successo. Se non fosse stata per la miopia di Breznev sarebbe nato uno Stato socialista democratico, prospero e libero? La risposta la possiamo dare, col senno di poi. Ed è: no. Perché vent’anni dopo Gorbacev, proprio ricordando l’esperimento di Dubcek, provò a ripetere l’esperienza in Unione Sovietica e la incoraggiò in tutti i paesi del Patto di Varsavia. Risultato? Patto sciolto e Unione dissolta, in appena cinque anni. Il fatto è che quella “forza delle idee marxiste leniniste” in cui sperava Dubcek non è mai esistita, se non sorretta dalla repressione. La stessa primavera di Praga lo ha dimostrato: gli intellettuali chiedevano libertà dal regime, la Chiesa chiedeva libertà dal comunismo, la gente comune chiedeva libertà dal sistema socialista. Il solo accenno di qualche riforma aveva dato inizio a processo spontaneo di liberazione che il Partito non avrebbe più controllato. E che solo i tank dell’Armata Rossa hanno messo a tacere.