Festività tragiche per i cristiani dell'Asia
Nepal, Indonesia, Aceh, Vietnam, Corea del Nord... in circa 50 Paesi i cristiani non possono celebrare le festività natalizie liberamente, o lo possono fare subendo però attentati e aggressioni.
Nel 2011 il governo del Nepal ha proclamato il giorno di Natale festa nazionale. Da allora i cristiani possono celebrare la ricorrenza pubblicamente. Quest’anno, in particolare, i preparativi della vigilia sono stati occasione di momenti di incontro e riconciliazione tra cristiani, indù, buddisti e musulmani. Malgrado ciò o, piuttosto, proprio per questo un grave atto di terrorismo ha funestato la vigilia. Il 23 dicembre a Kichet, un villaggio a pochi chilometri dalla capitale Kathmandu, un commando armato ha dato fuoco a una chiesa protestante, distruggendola completamente, e poi ha attaccato e bruciato le case di quattro famiglie convertite al cristianesimo. Alcuni residenti che hanno tentato di fermare i terroristi sono stati picchiati. La polizia non è intervenuta e il governo ha preferito minimizzare l’accaduto ipotizzando che i responsabili dell’attacco non facciano parte di un gruppo organizzato. Tuttavia i sospetti più che fondati della popolazione ricadono sui fondamentalisti indù. Il fatto che, oltre alla chiesa, siano state distrutte le abitazioni di alcuni convertiti al cristianesimo suona evidentemente come una minaccia rivolta a chi intendesse seguirne l’esempio.
In Indonesia altri cristiani ha trascorso il Natale senza una chiesa in cui riunirsi. Si tratta della comunità protestante della Yasmin Church di Bogor, città della provincia di West Java, a circa 60 chilometri dalla capitale Giacarta. Da due anni, su richiesta della popolazione islamica istigata da gruppi integralisti, la loro chiesa è stata requisita dalle autorità distrettuali con il pretesto di irregolarità nei permessi di costruzione. Quest’anno i fedeli speravano di poterne riprendere possesso dato che ben due sentenze della Corte suprema hanno dato loro ragione e hanno disposto il dissequestro dell’edificio e la sua riapertura al culto. Invece le autorità distrettuali non hanno dato corso al verdetto. Così la comunità ha dovuto celebrare le funzioni natalizie all’aperto, in una struttura riparata da un tetto ma priva di mura, circondata da 300 agenti di polizia e sotto gli occhi ostili di decine di fondamentalisti radunatisi nelle vicinanze. Per niente impauriti, i cristiani di Bogor si dichiarano determinati a continuare a ritrovarsi all’aperto e in luoghi d’emergenza, forti del fatto che la costituzione indonesiana garantisce la libertà religiosa. Ma nel solo mese di dicembre cinque luoghi di culto cristiani sono stati chiusi su pressione dei fondamentalisti islamici.
Sempre in Indonesia, nella provincia di Aceh dove dal 2002 è in vigore la shari’a, la legge coranica, quest’anno per la prima volta sono stati proibiti persino i festeggiamenti di Capodanno, oltre alle celebrazioni natalizie. Il Consiglio consultivo degli ulema il 17 dicembre aveva decretato: “la natura delle celebrazioni per il Nuovo Anno non appartiene, per spirito, all’Islam”. Festeggiare l’inizio di un nuovo anno, calcolato sulla base di un calendario che conta gli anni dalla nascita di Gesù, inteso come il Figlio di Dio, non come un profeta come vuole la religione islamica, è “haram”, proibito, per gli integralisti islamici che inoltre, più in generale, reprimono severamente svaghi e passatempi. Per garantire la piena applicazione della shari’a, nei giorni scorsi squadre di agenti della polizia religiosa e di funzionari civili hanno quindi pattugliato le strade confiscando petardi, fuochi d’artificio e trombe, punendo i trasgressori o deferendoli alle autorità locali che, da parte loro, hanno promesso pene esemplari contro chi abbia violato la norma.
In Nepal, il nazionalismo indù, in Indonesia, il fondamentalismo islamico: in altri stati è il comunismo a minacciare i cristiani e a proibire “contaminazioni” con il Cristianesimo.
Il Vietnam è 21°, compreso tra i paesi che infliggono persecuzioni gravi ai cristiani, nella Worldwatch List 2013 compilata da Open Doors, l’organizzazione internazionale che da quasi 60 anni sostiene i cristiani perseguitati. Quest’anno addirittura un gruppo di volontari cattolici sono stati aggrediti dalla polizia del comune di Ayun mentre per conto di Padre Rean Si Tin, pastore della congregazione cattolica di Gia Lai, portavano dei doni di Natale – coperte e altri regali offerti dalla comunità cristiana – ai bambini orfani e poveri residenti in aree remote della provincia di Kontum, negli altipiani centrali. Gli agenti hanno costretto i cristiani a tornare indietro senza recapitare i doni. Non contento, il capo del partito comunista di Ayun, Dat Nguyen Van, ha torturato il leader dei volontari, Kpuih Bop di Plei Chep, provocandogli diverse lesioni interne per cui è stato ricoverato in ospedale. Le attività cattoliche sono spesso proibite, spiega padre Tin, “tutto ciò che riguarda la religione incontra questa reazione immorale da parte dei funzionari”.
Nella Worldwatch List 2013 dei 50 paesi che più duramente perseguitano i cristiani, la Corea del Nord occupa da 11 anni il primo posto: insieme ad altri dieci stati, è accusata di “persecuzione estrema”. I cristiani nordcoreani hanno celebrato questo Natale nascosti in tunnel sotterranei, rischiando la vita come fanno ogni volta che pregano. “In Corea del Nord ci sono luoghi che potremmo chiamare chiese: sono sotterranei, luoghi dove due o tre persone si riuniscono in segreto a costo della vita per celebrare le funzioni religiose”: a spiegarlo all’agenzia di stampa AsiaNews è Han Min, fuggito dal paese 16 anni fa grazie all’aiuto di una chiesa protestante e convertitosi al Cristianesimo. L’esistenza di alcune chiese interamente controllate dallo stato – sostiene Han Min – non è che una forma di propaganda, per far credere che esista libertà di religione. I cristiani vengono arrestati, torturati, imprigionati, condannati a morte. Nel solo, tristemente noto campo di lavoro n.15 si ritiene siano reclusi 6.000 cristiani.