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EDITORIALE

Fermiamo la barbarie o la barbarie ci spazzerà via

Gli ostaggi decapitati, i cristiani rifugiati in Kurdistan che invocano aiuto, gli "stati" islamici che stanno crescendo nel cuore delle città europee sono tutti elementi di una stessa realtà. Che continuiamo a non voler vedere. - I volti della sofferenza cristiana in Iraq, di M. Lozano

Editoriali 15_09_2014
David Haines

«Aiutateci, la nostra unica speranza è che qualcuno ci salvi da una morte certa». Questo grido che arriva dai cristiani iracheni costretti a rifugiarsi in Kurdistan, e raccontato da chi si è recato a visitarli (vedi il reportage linkato), non può non scuotere le nostre coscienze. È un grido reso ancora più drammatico dal fatto che è stato raccolto un mese fa (ma il reportage è stato distribuito ieri) e da allora per i cristiani iracheni profughi nulla è cambiato, anzi è peggiorato, perché il mondo, anche quando è preoccupato delle gesta dello Stato Islamico, non pare affatto interessato alla sorte dei cristiani.

Al contrario, malgrado i vescovi cattolici iracheni e i Patriarchi cristiani abbiano insistentemente invocato un intervento militare per salvare i cristiani – e non solo – permettendo loro di tornare nelle proprie città e villaggi, nulla sembra muoversi in questo senso. E anche nel mondo cattolico si sprecano gli interventi pacifisti che escludono qualsiasi ricorso alle armi e anzi invocano una sorta di disarmo unilaterale. Ne è un esempio l’articolo del solito Enzo Bianchi (clicca qui) che su Repubblica di ieri prendeva spunto dal forte discorso di papa Francesco a Redipuglia contro la guerra per delegittimare anche la possibilità di difendersi. E per dare tutta la responsabilità delle guerre attuali a produttori e commercianti di armi.

È vero che quella di frenare il flusso di fondi e di armi verso le milizie sunnite è una delle misure necessarie per combattere lo Stato Islamico, ma pensare che basti questo per fermare una guerra è ingenuo. La lezione del Ruanda e Burundi, dove vent’anni fa furono massacrate in poche settimane un milione di persone quasi esclusivamente a colpi di machete, dovrebbe avere insegnato che è l’odio la vera arma che distrugge, e si possono commettere genocidi anche senza artiglieria. E ce lo stanno ricordando i video delle decapitazioni degli ostaggi occidentali – ieri è arrivata la terza, quella del cittadino inglese David Haines -, per le quali non sono necessarie armi sofisticate. 

Ed è anche vero che il perdono è la strada per costruire la pace, ma ciò non ci esime dal rispondere alla domanda: cosa fare per salvare quei 120mila fratelli rifugiati in Kurdistan? Possiamo metterci a posto la coscienza con i sermoncini spirituali, ma solo perché ad aver abbandonato in tutta fretta case e averi non siamo noi né sono i nostri familiari quelli massacrati e non sono le nostre figlie quelle ragazze rapite e fatte schiave sessuali.

La preghiera è sicuramente la prima forma di aiuto che possiamo dare, ma la preghiera non è astrazione dalla realtà, è invece una comprensione più vera della realtà. Ci fa sentire ancora più bruciante la necessità di fare tutto il possibile per aiutare – anche materialmente – le persone per cui preghiamo. Altrimenti è replicare in altro modo quel “A me che importa?” di Caino che nel discorso di Redipuglia papa Francesco ha posto all’origine della guerra.

E infatti è così che è cresciuto l’Isis, ma non solo. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la “Terza guerra mondiale a pezzi”, di cui ha parlato il Papa è in gran parte provocata dal fondamentalismo islamico che avanza grazie al nostro non voler vedere, non voler riconoscere ciò che sta accadendo davanti ai nostri occhi. L'Isis è cresciuto a colpi di "Sosteniamo la primavera araba cntro i vecchi dittatori", "Non è una guerra di religione", "Non si parli di scontro di civiltà", "L'islam non c'entra".

Non possiamo dimenticare le parole del vescovo di Mosul che un mese fa ci avvertiva (clicca qui): «Per favore, cercate di capirci. I vostri principi liberali e democratici qui non valgono nulla. Occorre che ripensiate alla nostra realtà in Medio Oriente perché state accogliendo nei vostri Paesi un numero sempre crescente di musulmani. Anche voi siete a rischio. Dovete prendere decisioni forti e coraggiose, a costo di contraddire i vostri princìpi. Voi pensate che gli uomini siano tutti uguali. Ma non è vero. L’islam non dice che gli uomini sono tutti uguali. I vostri valori non sono i loro valori. Se non lo capite in tempo, diventerete vittime del nemico che avete accolto in casa vostra». 

L’articolo di Stefano Magni che pubblichiamo in Primo piano (clicca qui) dimostra quanto queste parole siano vere e già terribilmente attuali. In diversi paesi europei già sta crescendo pericolosamente uno stato nello stato e i nostri governi sembrano già non in grado di difendere la sicurezza dei propri cittadini, anzitutto per debolezza culturale.

Non vogliamo sostenere che tutti i musulmani debbano essere trattati da nemici ma proprio per evitare questa deriva è necessario: colpire con decisione le centrali dell’odio che sono ben diffuse anche in Europa e in Italia; evitare di scegliere come interlocutori personaggi e associazioni che giustificano violenze e guerre sante; impedire che si creino zone extraterritoriali dove impera la legge coranica.

E non aver paura di correre in soccorso di quanti vengono schiacciati e perseguitati dai fondamentalisti islamici. Non dobbiamo muoverci per conquistare paesi e territori, ma per difendere la dignità di ogni uomo e la possibilità che una civiltà – sviluppatasi grazie al Cristianesimo - non venga spazzata via dalla barbarie.

- I volti della sofferenza cristiana in Iraqdi M. Lozano