Femminicidio, tre criticità e un sospetto: il politically correct
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Il Ddl sul femminicidio licenziato dal Consiglio dei ministri apre a diverse criticità: sul lato probatorio, sull'indeterminatezza normativa e sul "valore sociale". Oltre a configurare una discriminazione nei confronti dei maschi, che vìola l'articolo 3 della Costituzione.

Un disegno di legge sul femminicidio è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 7 marzo scorso, alla vigilia della Giornata internazionale della donna. La bozza che il Governo ha fatto circolare così recita: «Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l'esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l'espressione della sua personalità, è punito con l'ergastolo. Fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l'articolo 575» del Codice penale, che prevede una pena non inferiore a 21 anni. Dunque, siamo di fronte ad un reato speciale: se l’omicidio viene commesso perseguendo alcune finalità la pena è certamente l’ergastolo. Qualora mancassero tali finalità la condotta regredisce a semplice omicidio, punibile solo eventualmente con l’ergastolo.
Questo reato autonomo presenta diverse criticità.
La prima riguarda il lato probatorio: i moti del foro interno per essere sanzionati devono appalesarsi in modo chiaro nel foro esterno. Tradotto, le malevoli intenzioni che muoverebbero l’omicida devono poi concretarsi in atti da cui è poi possibile risalire in modo inequivocabile alle medesime intenzioni. Ad esempio, secondo il Ddl, Tizio può scontare il carcere a vita per aver ucciso Caia perché la odiava in quanto donna. Occorrerebbero testi scritti, video, testimonianze che provassero non un generico odio di Tizio verso le donne, ma verso Caia in quanto donna. Molto difficile. Con il Ddl sul femminicidio si potrebbe rischiare allora di imbastire una processo alle intenzioni più supposte che provate.
Secondo inciampo: mancanza di tassatività della norma o indeterminatezza della fattispecie. Manca cioè la descrizione precisa delle condotte che potrebbero condurre il reo a scontare l’ergastolo. In altre parole, il cittadino deve conoscere in anticipo e con precisione quali atti confluiranno nel nuovo reato. Altrimenti la determinazione della fattispecie sarà in mano al libero giudizio dei giudici che è molto imprevedibile. Il problema, perciò, è la genericità di alcuni termini ed espressioni indicanti quelle motivazioni peculiari capaci di qualificare l’omicidio come femminicidio. Proviamo ad esemplificare per ogni finalità incriminatrice. La discriminazione verso la vittima in quanto donna. Tizio uccide Caia, sua collega di lavoro, per invidia: Caia ha avuto una promozione che Tizio pensava spettasse a lui. Facile far assorbire la motivazione riguardante l’invidia dalla motivazione “discriminazione in quanto donna”, perché si potrebbe argomentare che chi invidia una donna per motivi professionali la discrimina. Ma lo stesso potrebbe avvenire per un uomo, ribattiamo noi.
Passiamo all’odio verso la vittima in quanto donna. Cosa si intende per odio secondo il Ddl? Non è dato di saperlo. L’odio, al pari di tutti i sentimenti, ha i confini sfumati. Ma su quei confini il reo può giocarsi la “fine pena mai”. Si correrebbe dunque il rischio che un giudice possa giudicare un certo atteggiamento anche solo antipatico dell’omicida verso la vittima come odio e un altro giudice invece avrebbe potuto giudicarlo penalmente irrilevante proprio perché ognuno interpreta il concetto di “odio” in modo soggettivo, non esistendo una definizione giuridica oggettiva e dunque vincolante per tutti.
Altra finalità dell’omicidio che potrebbe far qualificare quest’ultimo come femminicidio: la repressione dell’esercizio dei diritti e delle libertà della donna. In primo luogo, qual è la differenza per questo Ddl tra diritti e libertà? Non è dato saperlo. In secondo luogo: quali diritti e quali libertà configurano il reato di femminicidio? Pare che siano tutti, dato che non sono specificati. Dunque, posto che l’esegesi sia corretta, se, ad esempio, Tizio uccidesse Caia per motivi di eredità scatterebbe il reato di femminicidio.
Infine l’ultima finalità legata ad un omicidio di una donna che merita l’ergastolo sarebbe quella della repressione dell’espressione della sua personalità. Anche in questo caso la locuzione è così generica che può e forse deve confluire in essa qualsiasi manifestazione caratteriale. Dunque, qualsiasi omicidio di donna motivato dalla personalità della vittima diventerebbe femminicidio. Uccisa perché troppo socievole, troppo introversa, troppo spigliata, troppo brava nel lavoro, etc. Qualsiasi “troppo” meriterebbe l’ergastolo.
Se mettiamo insieme tutte queste motivazioni legittimanti l’ergastolo scopriamo che qualsiasi omicidio di donna potenzialmente sarebbe un femminicidio proprio perché le motivazioni che configurano il femminicidio sono così ad ampio spettro che sarebbe ben difficile sfuggire al suo raggio di applicazione.
Ma veniamo alla critica forse più rilevante a questo Ddl. Per articolarla ricorriamo ad un esempio: Tizio uccide Caia perché lo ha lasciato. Certamente ergastolo. A ruoli invertiti l’ergastolo è solo una eventualità. Dunque, questo Ddl è discriminatorio verso gli uomini e quindi viola l’art. 3 della Costituzione, il quale così recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso» etc. Il Ddl privilegia il sesso femminile in modo ingiustificato. Perché non esiste un’uguale norma che sanziona con l’ergastolo l’omicidio per le medesime motivazioni contenute nel Ddl? Dunque, la nostra critica non riguarda la pena dell’ergastolo per chi uccide una donna – ben venga – bensì la disparità di trattamento immotivata tra donne e uomini, quasi che le prime abbiano maggiore dignità rispetto ai secondi.
C’è ad aggiungere che il trattamento di favore verso le donne non riguarda solo il reato di omicidio. Infatti, il Ddl prevede delle aggravanti qualora le motivazioni presenti nel reato di femminicidio siano le medesime che portano a commettere quell’insieme di delitti compresi sotto la dizione "Codice rosso" a danno delle donne: maltrattamenti di familiari, minacce, revenge porn, stalking, violenza sessuale e lesioni permanenti al viso.
Il sospetto quindi che questo Ddl sia espressione del politicamente corretto in chiave femminista e doveroso ossequio alla direttiva UE n.1385/2024 sulla violenza sulle donne è dunque elevato.
Si obietterà che questo nuovo reato è motivato dalla situazione di vulnerabilità delle donne. E allora seguendo la stessa logica dovremmo avere altri reati speciali per altrettante categorie sociali fragili e vulnerabili: l’omicidio di anziani, disabili, disoccupati, extracomunitari, persone di colore, credenti, etc. compiuti per le stesse motivazioni presenti nel Ddl. In realtà il nostro ordinamento giuridico già tutela i reati a danno di queste categorie prevedendo le cosiddette aggravanti comuni, in specie per aver agito per motivi abietti e futili o per aver approfittato della condizione della persona in modo tale da aver ostacolato la difesa privata. Circostanze aggravanti che potrebbero essere applicate benissimo anche nel caso di omicidio di una donna in quanto donna.
Un’altra obiezione potrebbe essere la seguente: le proporzioni del fenomeno in cui assistiamo all’uccisione di una donna ogni tre giorni richiedono una norma penale speciale. La risposta si articola secondo due direttrici. In primo luogo, se applicassimo le motivazioni del Ddl agli omicidi di uomini, i maschicidi supererebbero i femminicidi per numero. Infatti, già oggi la maggior parte delle vittime di omicidi sono uomini. Ciò per dire che usando i criteri punitivi del Ddl in relazione agli uomini, la vera emergenza sarebbero i maschicidi. Quanti omicidi di uomini commessi per reprimere i loro diritti, le loro libertà o motivati dal carattere della persona.
In secondo luogo, non è creando una norma ad hoc che si debellerà il fenomeno dei femminicidi, bensì investendo sulla educazione delle coscienze. La legge n. 69 del 2019, denominata "Codice Rosso" e voluta proprio per tutelare maggiormente le donne, ha introdotto nuove fattispecie di reato ed ha inasprito le pene di altri reati già esistenti. Eppure il numero annuo di femminicidi non è calato, così come ammesso qualche giorno fa dallo stesso Ministro della famiglia Eugenia Roccella, una delle promotrici del Ddl sul femminicidio: «Nonostante gli strumenti innovativi già adottati il numero dei femminicidi non cala».
Una terza obiezione potrebbe venire proprio dal Ministro Roccella che sul Ddl femminicidio ha sottolineato che «introdurre il reato di femminicidio è soprattutto un tentativo di produrre un mutamento culturale». Insomma, sanzioniamo con il massimo della pena chi uccide una donna per educare le masse. Ciò è errato perché configurerebbe un ingiusto uso dello strumento penale a scopo pedagogico. La prima preoccupazione del legislatore penale deve essere quella di irrogare una giusta pena commisurata al valore del bene leso e alla volontarietà dell’azione, non commisurata al progresso dell’educazione collettiva. Che poi la giusta pena serva anche da monito alle persone è sì uno scopo buono della norma, ma subordinato alla volontà di calibrare la pena secondo la natura della condotta e la responsabilità soggettiva.