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SUMMIT AD AMMAN

Fallita la pace dei Grandi, ci provano i patriarchi

Ventidue capi delle diverse confessioni cristiane sono riuniti ad Amman per l'Assemblea del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente. Discuteranno di come ridare una casa e un rifugio sicuro per chi è stato costretto a fuggire a causa della guerra e della persecuzione. Fallita la pace tentata dai potenti del mondo, tocca ai patriarchi trovare la strada per far sì che la voce dei cristiani del Medio Oriente possa essere finalmente ascoltata. 

Ecclesia 07_09_2016
Bimbo siriano

Ventidue capi delle diverse confessioni cristiane sono riuniti ad Amman per l'undicesima Assemblea del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente. Già il fatto che i patriarchi delle diverse Chiese - dai greco-ortodossi ai copi, dagli assiri alle denominazione evangeliche - si riuniscano insieme in una terra dalla storia così colma di ferite sarebbe una notizia. Ma lo diventa evidentemente di più alla luce dei drammi che le comunità cristiane stanno vivendo in buona parte dei Paesi della regione. E non è un caso che l'incontro avvenga proprio in Giordania, uno dei pochi angoli del Medio Oriente che i cristiani possono continuare a considerare oggi un luogo ospitale.

A sottolinearlo nel discorso di apertura è stato il patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Teofilo che ha ricordato come la Giordania sia stato in questi anni «una casa e un rifugio sicuro per tutti coloro che sono stati costretti a migrare o sono stati scacciati dalle loro case a causa della guerra e della persecuzione». E non può ovviamente essere che questo l'argomento centrale della discussione dell'appuntamento che ad Amman proseguirà fino a giovedì: quali strade percorrere insieme per far sì che la voce dei cristiani del Medio Oriente possa essere finalmente ascoltata?

Del resto le notizie che giungono dai tavoli della diplomazia e dai campi di battaglia sono tutt'altro che incoraggianti. Il mancato raggiungimento dell'accordo tra Stati Uniti e Russia sul cessate il fuoco intorno alla martoriata Aleppo è solo un tassello di una situazione complessiva che si fa ogni giorno più preoccupante.  Chi si illudeva che l'indebolimento dell'Isis in Siria e in Iraq fosse la premessa a uno soluzione della carneficina che da anni ormai semina distruzione ovunque è puntualmente rimasto deluso. In queste ultime settimane abbiamo assistito solo alla corsa di ciascuna delle potenze in gioco ad assicurarsi carte migliori da spendere quando - prima o poi - il tavolo negoziale si aprirà sul serio. Con nuove inquietudini anche per le comunità cristiane. Per esempio, c'è grande preoccupazione in Siria per la città di Mhardeh, a nord di Hama, una delle più popolose città cristiane della Siria, nuovamente nel mirino delle milizie jihadiste legate al Free Syrian Army che da lì potrebbero entrare nella valle dell'Oronte. Si tratta dello stesso schieramento che a nord - con il sostegno aperto dell'esercito turco e della coalizione alleata - ha assunto il controllo della striscia sul confine siriano che Ankara non voleva assolutamente finisse nelle mani dei curdi. 

È stata presentata come una «liberazione» di aree controllate dall'Isis, ma è tutto da dimostrare che questi gruppi jihadisti siano meno pericolosi. E va aggiunto che anche nella stessa Turchia i cristiani non dormono certo sonni tranquilli: le ultime settimane, infatti, hanno riservato una serie di notizie da far rabbrividire. Intanto con l'amnistia decretata per fare posto alle decine di migliaia di persone accusate di essere fiancheggiatori del golpe è uscito di prigione l'assassino di don Andrea Santoro, il sacerdote fidei donum ucciso nel 2006. Poi su alcuni quotidiani filo-governativi sono arrivati gli attacchi al patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, accusato di connivenze con Fetullah Gulen, il grande nemico di oggi di Erdogan. Infine anche l'accusa lunare dei un procuratore di Smirne che in un atto giudiziario contro i gulenisti è arrivato a sostenere che il loro fondatore sarebbe stato creato «cardinale in pectore» da Giovanni Paolo II nel 1998. Tutti segnali che suonano come una chiara intimidazione nei confronti dei cristiani.

Che fare allora? Di questo i capi delle Chiese discutono apertamente ad Amman, ben consapevoli di non avere grandi sponde su cui puntare. Proprio ieri del resto è giunta anche una nuova denuncia molto forte del patriarca caldeo Luis Sako, rilanciata dall'agenzia Fides. In un documento dedicato alle tante discussioni in corso in Iraq sul dopo Isis a Mosul e nella Piana di Ninive - discussioni che vanno avanti ormai da mesi con il Califfato che nel frattempo se ne resta nella seconda città del Paese - il patriarca spiega che «i cristiani rischiano di diventare come un gettone di scambio» nei giochi intorno alla stabilità e al futuro assetto della regione. E proprio per questo l'unità tra di loro oggi è fondamentale. Anche perché è illusorio pensare che una vittoria sull'Isis da sola possa «risolvere il problema della diffusione dell'ideologia estremista, che bisogna smantellare».

Nel documento rilanciato da Fides il patriarca Sako - che pure ha sempre sostenuto in questi anni l'idea di un Iraq unito, oltre la deriva delle spaccature confessionali - si mostra molto realista sugli appetiti delle diverse potenze regionali e globali oggi rispetto al dopo Isis nella Piana di Ninive. Spiega che una soluzione politica provvisoria da prendere in considerazione per i villaggi a maggioranza cristiana della Piana di Ninive potrebbe essere quella di una «autogestione amministrativa». Ma soprattutto che - dopo aver realizzato il ritorno dei profughi alle loro case e il ristabilimento di condizioni generali di stabilità - sia perlomeno garantita agli abitanti di quell'area la possibilità di scegliere attraverso un libero referendum se vogliono rimanere sotto il governo centrale di Baghdad, se preferiscono far parte della Regione autonoma del Kurdistan iracheno o addirittura porsi sotto «il ventilato Stato sunnita».