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GRANDI CAPOLAVORI CRISTIANI/9

Factum est di Testori, la più grande tragedia di oggi

Poeta, drammaturgo, romanziere milanese, Giovanni Testori è un autore scomodo, spesso escluso dalle antologie sul '900. La sua produzione è sterminata e spazia nei diversi generi letterari. Esaminiamo Factum est, opera messa in scena per la prima volta l’11 maggio 1981 nella basilica del Carmine a Firenze.

Cultura 17_07_2016
Giovanni Testori

Poeta, drammaturgo, romanziere e pittore milanese, Giovanni Testori (1923-1993) è un autore scomodo, spesso escluso dalle antologie scolastiche sul Novecento. La sua produzione è sterminata e indice di grande versatilità nei diversi generi letterari, dal romanzo Il ponte della Ghisolfa (da cui Visconti ricava il film Rocco e i suoi fratelli) al ciclo di romanzi I segreti di Milano (ispirato ai cicli ottocenteschi francesi), dalle raccolte di poesie (L’amore e Per sempre) ai drammi teatrali che comprendono, ad esempio, rivisitazioni di Shakespeare (Ambleto, Macbetto) e la trilogia che consacra la conversione cattolica di Testori: Conversazione con la morte (scritta nel 1978 in seguito alla morte della madre), Interrogatorio a Maria (1979) e Factum est (1981).

Quest’ultima opera viene composta nel 1980 e messa in scena per la prima volta l’11 maggio 1981 nella basilica del Carmine a Firenze. Testori scrive un monologo teatrale, strutturato in quattordici parti come se fosse una via crucis. L’autore lombardo è convinto «che il monologo sia la forma più alta di teatro. Tutto il teatro tragico è, in fondo, un monologo a più voci. È stato il teatro moderno, a partire dall’Ottocento, a far credere che il dramma sia nell’antitesi. Se torni ad ascoltare un grande testo tragico come l’Amleto di Shakespeare, ovviamente non è la trama che ti tenta, ma il fatto che quel testo sia un’inchiesta sul destino dell’uomo: un destino che ha sempre come riferimento l’Essere Totale, cioè Dio».

Nell’opera parla solo il feto, colui che nella realtà non ha diritto di parola, di espressione, di comunicazione della propria volontà. È lui che viene messo in croce, è lui il nuovo Cristo crocefisso, rifiutato, reso totalmente silente ancor prima che esca dal ventre della madre. In una dinamica antitetica a quella annunciata nel vangelo di Giovanni dove «Verbum caro factum est»  («il Verbo si fece carne»), nell’opera la carne del feto (cui viene impedito di farsi carne al di fuori del ventre materno) si fa dapprima parola, poi profezia, infine maledizione. 

Non appena concepito, il feto grida di esultante gratitudine: «Grazie te, Cristo re!/ Parlo qui! Sento qui!/ Cuore qui, carne qui,/ batte qui, grida qui!/ Vita Cristo vive qui!/ Casa, carne,/ ventre, te. […]/ Grazie, Dio,/ grazie, Luce,/ grazie, Te./ Ora e sempre/ Vive, parla,/ sangue, canta,/ carne, me». La sua gratitudine è rivolta anche al padre e alla madre, cui si sente di appartenere: «Son di Lui,/ son di voi,/ madre, padre,/ sono io!/ Sono Lui/ e lei e te!/ Siamo tre! […]/ Grido lieto:/ sono cuore,/ sono vita,/ forma sono,/ sono feto!» Il padre, però, non riconosce un senso, una causa e un fine a quel grumo di cellule: «caso, bacio/ questo è stato». Il feto allora reagisce rivolgendosi alla madre: «Madre,/ mamma,/ a te m’aggrappo! […]/ Chi ti parla/ era pur come son io!»

Il feto che «chiede di venire alla luce e s’incarna nella sua stessa parola senza corpo. Nel grembo balbetta, strascica le parole, fino a che la voce si fa più percettibile, articolata, chiedendo una salvezza per sé e una speranza per la madre e per il padre che lo vogliono rifiutare». Nelle sue parole c’è un richiamo alla responsabilità del padre, quell’uomo che, anche se lo rifiuta, già è padre, perché il figlio è ormai concepito: «So, papà:/ io sono peso,/ peso vero;/ son fatica,/ son legame;/ da portare/ son legname;/ son catena;/ sono pena,/ ma,/ domani?/ Tu la vita,/ padre,/ ami?/ Forse un giorno/ Mi vedrai/ e dirai:/ “lasciar lui?/ Averlo mai?/ Mio bambino,/ vitellino,/ mio gattino…”».

Una commozione ci riempie il cuore nel sentir parlare un essere così piccolo, innocente, che dapprima sembra insistere sull’affettività dei genitori, poi sul buon senso e sulla ragionevolezza, poi sembra implorare pietà, proprio come un condannato a morte. Infine, la sua voce si tramuta in maledizione e profezia di distruzione per chi osa perpetrare un tale abominio! Sono toni che ricordano la lauda drammatica Donna de Paradiso di Iacopone da Todi. Ivi, Cristo è imprigionato, sottoposto alla passione, crocefisso! Ancora lo Stabat mater di Iacopone è presente in quel «fa’ che arda,/che la bruci […]. Fa’ che spada/ sia d’amore/ che trafigga/in madre/ cuore». 

La Madonna rimase ai piedi della croce accanto al Figlio assassinato. Qui la madre diventa lei stessa omicida, degenere, lussuriosa. Non a caso Testori la apostrofa con un’allusione alla figura della lussuriosa Pasifae dantesca, la moglie del mitico Minosse sovrano di Creta, colei che fece costruire una vacca di legno e vi si pose dentro per unirsi carnalmente ad un toro di cui si era innamorata (dall’unione nacque il Minotauro): «Più che bestia/ tu t’imbesti/ nella bestia/ -lui, lo sposo-/ che t’impesta!».

Il feto demistifica tutte le moderne giustificazioni dell’aborto, presentato come manifesto del diritto e della libertà della donna, quando esclama: «È per vivere/ - ti dici –/ Per avere libertà»./ Libertà/ di spegner vita?/ Libertà/ di violar Dio?/ Libertà per te/ è finita./ Che comincia/ è l’urlo eterno,/ primavera uccisa,/ inverno,/ sempre gelo,/ sempre brina./ Mai sarete/ come prima».  Un destino di rovina attende quell’uomo e quella società che non riconoscono la vita, che non l’abbracciano, dimentichi del nulla che anche noi siamo stati e di quel Tutto che ci ha voluti e ci ha chiamato alla vita: «Cadrai tu,/ Rovinerai/ terra che/ rifiuti vita,/ vita spegni/ dentro ventre;/ vino in sangue,/ pane in carne/ trasformato/ uccidendo/ chi non nato/ esser vita/ pur doveva/ hai calpestato,/ vomitato,/ assassinato». 

Nell’omicidio di un bimbo si manifesta il rifiuto di Cristo che si è fatto uomo, si palesa il rifiuto di Dio che è venuto ad abitare in mezzo a noi. L’uomo rinnega la carne della propria carne, ma non osa dirselo, non osa riconoscerlo! Un tempo, almeno, gli antichi consideravano come madre degenere quella Medea che aveva ucciso i due figli e che con l’omicidio si suicidava, rifiutando la sua stessa vita. Oggi l’uomo non riconosce più il male che compie contro di sé con il rifiuto del figlio. Per questo, a ragione, Madre Teresa vedeva nell’aborto, nel non riconoscimento del senso della nascita, il rischio più grande per la distruzione del mondo.