Fabrizio De André, una chitarra ribelle per il "regime"
Michele Antonelli è consulente dii sistemi informativi in mezzo mondo ed esperto di Balcani dove ha risieduto durante la locale guerra. Ora si è messo a spulciare la produzione di Fabrizio De André e ne ha fatto un libro dal titolo esplicito: Il ribelle di regime. La funzione antisociale delle canzoni di De André.
Michele Antonelli è uno che lavora come consulente dei sistemi informativi in mezzo mondo, in particolare è esperto dei Balcani dove ha risieduto durante la locale guerra. Ora si è messo a spulciare la produzione di Fabrizio De André e ne ha fatto un libro, con tanto di dettagliate tabelle comparative, dal titolo esplicito: Il ribelle di regime. La funzione antisociale delle canzoni di De André (Il Cerchio, pp. 210). Non mi attarderò a recensirne il contenuto, non voglio togliervi il piacere, anche perché avete già capito di che cosa si tratta. L’autore non ha tralasciato alcun verso delle canzoni, che ci sono tutte, analizzando anche quelle meno conosciute. No, la scorsa che ho dato all’opera mi ha fatto venire in mente un episodio e preferisco raccontarvi questo.
Molti anni fa, quando il Meeting di Rimini (quello di Comunione e Liberazione) era contenuto nel limitato spazio (e senza aria condizionata) della vecchia Fiera, il sottoscritto era un giovane giornalista con pochi denari (adesso sono un vecchio scrittore con pochi denari) e per molti agosti si adattava a dormire in scalcinati bed & breakfast locali (allora si chiamavano pensioni) su materassi di crine in un caldo boja pur di non perdersi quella settimana di orgoglio cattolico. Ogni sera dopocena c’erano uno o più spettacoli di arte varia, nei quali non di rado si poteva assistere a concerti pop di cantautori italiani di grido. Ora, poiché i cantautori italiani di grido erano tutti comunisti, i ciellini li invitavano a esibirsi sia perché non c’era scelta, sia per mostrar loro, giustamente, che i “giovani” non erano tutti atei e di sinistra e che i cattolici non erano affatto quei bacchettoni che la propaganda (di cui quei cantautori erano parte integrante) dipingeva. Io, comunque, quei concerti me li persi tutti, e scientemente. Ero convinto che quegli “artisti” venivano solo per i soldi, anche se avevano il buongusto di non sputare nel piatto in cui, per il momento, mangiavano.
La storia mi ha dato ragione, ma questa è un’altra storia. Niente, ecco l’aneddoto: un caro amico e collega, ciellino, in una di quelle occasioni mi propose di andare a sentire un famoso cantautore. Gli risposi che non avevo alcuna intenzione di venire ad applaudire un comunista dichiarato. «Sì» replicò «però è bravo». Ribattei che questa, per me, era, semmai, una ragione in più per astenermi, visto che uno bravo fa più danno di uno scarso. Goebbels, per esempio, era bravissimo nella sua attività, e anche Brecht non era male. Ma torniamo ai cantautori. Il più bravo di tutti era Fabrizio De André, non lo si può negare. Inarrivabile nei testi, niente di speciale nella musica, ma di questa ai suoi estimatori non importava nulla. Si è diffusa, chissà perché, la diceria che il cantautore genovese fosse anarchico. Invece, se si ascoltano i brani del suo Lp sul “bombarolo” lo si trova intento ad accusare il Partito comunista di non avere voluto fare la rivoluzione in Italia. Ma non sottilizziamo con i distinguo tra le varie anime della sinistra, litigiose e critiche tra di loro ma unanimi quando si tratta di dare addosso al nemico comune.
De André si era formato sull’esistenzialismo sartriano, di cui esordì come epigono in Italia. Nella sua opera non emerge un gran cultura, a parte la frequentazione di poeti à la page (gauche) come Lee Masters e Prévert. Al di là dell’abilità come creatore di testi (parecchi nient’altro che goliardici, come Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitiers, scritta, non a caso, insieme al compaesano Paolo Villaggio), la filosofia delle sue canzoni non si innalza mai al di sopra del luogocomunismo politicamente corretto. Nei Seventies l’esaltazione del proletariato e il pacifismo erano il massimo che ci si potesse attendere dai nostri cantautori meno banali: nemmeno Lucio Dalla poté esimersene (Itaca e Piazza Grande bastino come esempi). É anche vero che per spiccare nel panorama pop nazionale bastava poco. Un soprassalto si ebbe solo, a quel tempo, quando la moda corrente fece sì che perfino Al Bano e Iva Zanicchi si ritrovassero a cantare arie di Theodorakis, il musicista greco divenuto una star internazionale perché oppositore del regime dei Colonnelli (e ripiombato nell’oblio quando quel regime cadde).
Poi vennero gli anni “da bere”, il Soldo prese il sopravvento sull’Ideale e De André rimase unico. Sì, c’era anche De Gregori, ma è un fatto che certi versi a effetto del Fabri sono impressi nell’immaginario: una serie di documentari bellici di RaiStoria si intitola Mille papaveri rossi (da La guerra di Piero) e Vincenzo Mollica fa intonare nella sua rubrica di recensioni (sempre Rai) «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior» (da Via del Campo). No, De André era il più bravo e ancora oggi non c’è chi lo eguagli. Ma l’intera sua produzione non è che una critica continua, monotona e corrosiva, alla “società borghese”, di cui mai si accorse di far pienamente parte. In nome, forse, di una “società perfetta” immaginaria. Di quelle che, quando si realizzano, se ti azzardi a criticare finisci impiccato.