Expo dei Popoli, il dibattito a senso unico
Per tre giorni, da ieri, la Fabbrica del Vapore di Milano riunisce gli esponenti delle Ong che fanno parte della Expo dei Popoli. Come la Carta di Milano propone sviluppo sostenibile, difesa della biodiversità, sovranità alimentare e parità di genere. E si conferma che nell'Expo non esiste dibattito, ma una sola voce con varie tonalità.
Per tre giorni, da ieri, la Fabbrica del Vapore di Milano riunisce gli esponenti delle Ong che fanno parte della Expo dei Popoli. Dovrebbe essere una voce alternativa, espressione degli interessi e delle necessità dei popoli in via di sviluppo e delle periferie esistenziali. Tuttavia, il Manifesto della Expo dei Popoli è scritto sulla falsariga della Carta di Milano. O almeno, ad un lettore meno attento pare la messa in pratica, punto per punto del documento programmatico di Expo.
Della Carta di Milano condivide l’impostazione di fondo, quella secondo cui, per sfamare la popolazione mondiale, lo sviluppo debba essere “sostenibile”, si debba preservare la “biodiversità”, anche attraverso la tutela della “sovranità alimentare” e si raggiunga la “parità di genere” nella distribuzione della ricchezza, anche alimentare. Sono queste le parole d’ordine dell’Expo dei Popoli. Che approfondisce alcune tematiche trascurate dalla carta, come la necessità di contrastare il land grabbing (letteralmente: accaparramento di terre), l’enfasi posta sulla difesa dei piccoli contadini, dei diritti degli Stati a proteggersi dalle pratiche di dumping (sotto-costo), promozione di metodi di produzione sostenibili (contro l’allevamento intensivo, per esempio) e promozione della parità di genere.
Si tratta di temi apparentemente incontestabili, per accettare i quali, però, si devono dar per scontate molto premesse. Che scontate non sono. Prima di tutto si dà per scontato che l’iniquità della distribuzione della ricchezza alimentare sia dovuta alla “speculazione finanziaria” e come soluzione leggiamo: “la necessità che vi sia corrispondenza tra i prezzi agricoli e i costi di produzione”, un concetto marxista secondo cui il valore di un bene è legato al lavoro richiesto per produrlo e non alla sua scarsità o ad altri fattori dipendenti dalla legge della domanda e dell’offerta.
Si dà per scontato che l’allevamento intensivo abbia un “impatto sul clima”, che invece potrebbe benissimo non avere. Non solo la teoria del global warming è tutt’altro che una certezza scientifica, come abbiamo scritto tante volte su queste colonne, ma non è affatto detto che siano causate dalle emissioni antropiche, cioè dai gas serra prodotti dalle attività agricole e industriali umane. Da questo punto di vista, gli esponenti della Expo dei Popoli sono in buona e ottima compagnia: questa è la teoria dominante alla base delle politiche ufficiali europee, ma proprio per questo i poveri del mondo non offrono nulla di nuovo. Anzi, vanno contro agli interessi di tutti quei paesi in via di sviluppo che potrebbero essere danneggiati dalle politiche di riduzione delle emissioni e che restano quantomeno scettici in merito.
Soprattutto l’impostazione di tutto il discorso dell’Expo dei Popoli è un “noi dobbiamo loro”, perché la colpa è nostra, di tutti coloro che vivono nei paesi “ricchi”. Citando testualmente dal Manifesto, la nostra colpa è: “L’incapacità di garantire la sicurezza alimentare e una vita almeno decorosa a oltre un miliardo di persone riguarda tutti noi, cittadini e governi di un mondo ancora troppo ingiusto e squilibrato a favore di una minoranza apparentemente più fortunata. Nell’immediato futuro, non ci sono in gioco solo il rispetto di alcune promesse e degli impegni dei paesi più ricchi verso uno sviluppo sostenibile cui ci rifacciamo, ognuno con la propria cultura e con il proprio impegno, ma la credibilità stessa delle nostre politiche a livello globale”. Chi dovrebbe garantire una vita almeno decorosa ai cittadini della Corea del Nord (il paese con la più alta concentrazione di problemi alimentari), però, se non lo stesso regime nordcoreano, che detiene il potere assoluto anche nella distribuzione del cibo? E chi dovrebbe pensare a sfamare i cittadini dello Zimbabwe, dopo che il regime di Mugabe ha cacciato gli agricoltori bianchi, ha nazionalizzato le loro aziende e ha distrutto un patrimonio agricolo fra i più ricchi del pianeta? Sono solo due esempi fra i tanti, ma non è un caso che la mappa della fame coincida, grosso modo, con quella della libertà politica ed economica. E non è certo per colpa dei “ricchi” europei se quei regimi sono al potere.
Alla fine, lo spettacolo culturale che l’Expo ci sta mostrando è quello di un “dibattito” a senso unico, un’unica visione del mondo, un unico set di parole d’ordine. Da questo dibattito sono escluse alcune idee, considerate ormai un tabù. E’ scandaloso dire che gli Ogm possano sfamare i popoli più poveri, forse anche meglio del cibo biologico. E’ bandita l’idea che la globalizzazione economica faccia uscire centinaia di milioni di persone dalla fame, anche se è un fenomeno sotto gli occhi di tutti, ormai. Eppure, escludendo queste voci, avremo meno possibilità di sfamare gli affamati.