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TASSE

Evasori fiscali e vampiri anemici

Se lo si libera da funzioni che non gli competono, lo Stato fare finalmente ciò che deve: assicurare l'ordine nella libertà. Come diceva Gustave Thibon.

Attualità 13_01_2012
La pressione fiscale esagerata

 

Intervenendo a Reggio Emilia, dove lo scorso sabato 7 gennaio ha celebrato il 215° anniversario del Tricolore, Mario Monti ha confessato di non essere mai stato persuaso dall'impiego dell'espressione «mettere le mani nelle tasche degli italiani» come «sinonimo di tassazione» perché «alcuni italiani mettono loro, le loro mani, nelle tasche di altri italiani. Sono gli evasori rispetto ai contribuenti onesti».

Le parole del premier hanno suscitato la reazione di quanti nel rigetto di questa formula linguistica hanno intravisto la velata critica di una delle idee-forza del progetto politico berlusconiano. Pochi forse ricordano però come, con significativa continuità, alla stessa immagine degli evasori con le mani in altrui tasche avesse fatto ricorso qualche anno prima Tommaso Padoa-Schioppa, il ministro dell’Economia del secondo governo Prodi recentemente scomparso. L’invettiva anti-evasione pronunciata da Padoa-Schioppa nel 2006, coerente con la propria funzione di ministro-liturgo di uno Stato-Provvidenza, in verità aveva assunto allora anche toni più vibranti, trasformandosi in un vero imperativo etico: «Gli evasori non solo hanno messo le mani nelle tasche dello Stato e in quelle degli altri cittadini che pagano le tasse, ma violano anche il settimo comandamento».
In altre circostanze l’evocazione della morale dei comandamenti da parte di un ministro della Repubblica sarebbe stata considerata un grave attentato alla “laicità dello Stato”. Ma l’oppressione fiscale in nome della “Volontà generale”, si sa, val bene una messa e le vestali del laicismo in quel frangente osservarono, è il caso di dirlo, un religioso silenzio.  

Resta da chiedersi perché mai si invochi proprio questo termine, «evasione». L’uso linguistico come spesso accade è sintomatico. In un articolo comparso nel giugno 1973 sul periodico Itinéraires il filosofo-contadino Gustave Thibon notava come l’evoluzione linguistica, in questo campo come in altri, fosse foriera di preziosi insegnamenti: «L’espressione frode fiscale – osserva Thibon –, che designa il delitto col quale il cittadino tenta di sfuggire alle maglie del fisco, è sostituita in misura sempre più crescente dal termine evasione fiscale». Vi è una sostanziale differenza tra le due espressioni. Mentre frodare equivale a mancare a un dovere, abusando della fiducia o dell’incompetenza altrui, l’atto di evadere è proprio del prigioniero che furtivamente si allontana dal luogo di detenzione. E questo significa, prosegue Thibon, «che il rapporto tra il contribuente e il fisco tende a somigliare a quello di un detenuto col proprio carceriere». Una disamina acuta, quella del philosophe-paysan, che a poco meno di quarant'anni di distanza si dimostra quanto mai attuale. Già allora la voracità e l'iniquità del sistema fiscale ponevano il contribuente nelle condizioni di sentirsi in «stato di legittima difesa».

Ingiusta, secondo Thibon, è anzitutto l’imposta attualmente richiesta, che colpisce in maniera particolare la sana imprenditorialità e la massa dei salariati, vale a dire il capitale e il lavoro produttivo. E d’altro canto l’inverosimile, astrusa complessità dei meccanismi della legislazione fiscale offre innumerevoli scappatoie agli elementi marginali e parassitari dell’economia (trafficanti, speculatori, imprese deficitarie, ecc.), ma scaltri a sufficienza da riuscire a insinuarsi tra le pieghe del Leviatano fiscale, quando non sono addirittura in grado di trarne profitto. Tanto che si può arrivare al caso limite di vedere penalizzate onestà civica e competenza e ricompensate disonestà e incapacità.
L’imposta non solo è eccessiva: è anche mal ripartita e tende a divenire inefficace, perfino controproducente. Non solo perché in questo modo la riscossione e la redistribuzione dei tributi comportano costi enormi e un vertiginoso dispendio di energie, ma anche perché «ogni offensiva del fisco suscita presso le sue vittime nuovi riflessi di autodifesa, l'ingiustizia richiamando la frode in una catena senza fine».

Si assiste così a uno dei più tristi spettacoli della nostra epoca, quello di «vedere i singoli e lo Stato rivaleggiare in immoralità». Tutto questo accade perché «lo Stato si vuole provvidenza universale e non può divenirlo se non trasformandosi in vampiro». Diventa normale, in queste condizioni, che «ciascuno cerchi di evitare le ventose del vampiro per abbeverarsi alle mammelle della provvidenza. Ciò dà luogo a un incrociarsi di interessi contrastanti che falsa il gioco naturale dell'economia...». L’unico rimedio utile a estinguere la sete dello Stato-vampiro consiste allora nel ridurre l’imposta iniqua per riconsegnarlo così al suo originario ruolo di legislatore, giudice e arbitro. Liberato il mercato dal gravame dell'esorbitante fiscalità pubblica, la sana prosperità che ne deriverebbe comporterà un rilancio del principio di sussidiarietà: permetterà cioè agli individui o agli organismi privati di assumere in prima persona i compiti oggi usurpati dallo Stato, in primo luogo la funzione di «imprenditore»: una esperienza ormai fin troppo lunga lascia ben poche illusioni sul cattivo funzionamento dei monopoli di Stato. Per non parlare del ruolo di «assicuratore», chiosa Thibon: «Il deficit cronico della Previdenza sociale, la lenta e cattiva qualità dei servizi, gli abusi incoraggiati dal clima di irresponsabilità e anonimato che regna al suo interno costituiscono uno scandalo permanente».

Così, «tanto per la propria voracità nei confronti degli uni quanto per gli interventi disordinati in favore degli altri – individui o gruppi di pressione – lo Stato moderno disorganizza tutto quel che tocca. E i suoi servizi all'apparenza più gratuiti sono in realtà i più onerosi, poiché non può dare da un lato se non prendendo dall'altro e, visto il disordine e lo spreco che regnano all'interno del proprio circuito, se non prendendo più di quanto non dia. Come vampiro, assorbe troppo; come provvidenza, distribuisce male».

Infine, assurdo paradosso, questo organismo ipertrofico si indebolisce nelle misura in cui diventa sempre più ampio: «Questo vampiro è un vampiro anemico giacché le spese aumentano sempre più velocemente delle proprie risorse. Come certi bulimici, sta tanto più male quanto più divora».
Occorre dunque che lo Stato sia ricondotto alle proprie normali dimensioni. Dall'innalzamento di un argine all'abnorme invasività del fisco trarrà giovamento non solo la società, ma lo Stato stesso che, finalmente «liberato dalle funzioni estranee alla propria sfera di competenza, potrà efficacemente consacrarsi al suo compito: assicurare l'ordine nella libertà».