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Eutanasia, i due errori "mortali" del dolce Augias

Ennesimo capitolo della saga pro-eutanasia in omaggio con l’acquisto di Repubblica. Dopo il racconto dell’infermiere e l’immancabile Veronesi, ora tocca a Corrado Augias, il quale ha avuto sempre un debole per tale luttuosa tematica. Risponde a un lettore e rilancia la necessità della dolce morte per tutti.

Vita e bioetica 03_03_2015
Corrado Augias

Ennesimo capitolo della saga pro-eutanasia in omaggio con l’acquisto di Repubblica. Inizialmente il racconto dell’anonimo caposala dell’ospedale di Careggi, poi l’immancabile Veronesi e due giorni fa Corrado Augias, il quale ha avuto sempre un debole per tale luttuosa tematica Il Nostro risponde ad un lettore: «Mi ha colpito nella testimonianza dell’infermiere (cattolico) la frase: “Se teniamo in vita artificialmente un paziente, ci sostituiamo a Dio”. Parole secche che fanno risaltare la pigrizia di quanti ancora sostengono che la vita va tutelata “fino alla sua fine naturale”. Una fine naturale non esiste più da quando la medicina ha elaborato metodi di sopravvivenza così perfezionati che oggi possiamo parlare al più di diversi gradi di “innaturalezza”». 

Tralasciamo l’ineleganza di chi vuole assumere l’Onnipotente a testimonial dell’eutanasia, proprio Lui che disse a noi tutti per tramite di Mosè: «Non uccidere». A dar ragione ad Augias per schivare il vizio d’accidia nonché il disumano pericolo di mantenere in vita una persona in modo innaturale, dovremmo lasciare morire tutti. E sì perché ogni volta che un malato di cancro grazie alla chemioterapia guarisce o un cardiopatico scampa alla morte grazie ad un cuore nuovo, noi stiamo prolungando la loro vita in modo artificiale. Se dovessimo rispettare le leggi di natura, augianamente intese, e dovessimo essere meno pigri, dovremmo chiudere cliniche, ospedali, pronto soccorso, ambulatori e persino farmacie. Perché anche prendere un’aspirina – e Augias ne avrà presa almeno una in vita sua – significa opporsi artificialmente al moto naturale degli eventi, inserire una distorsione nella traiettoria dei fatti naturali che prima o poi ci porterà alla tomba. 

Certo che curare o guarire una persona significa prolungare artificialmente la vita, anzi: più correttamente significa prolungare umanamente la sua esistenza. É ciò che hanno fatto da sempre i medici. Non farlo significherebbe uccidere la persona per tramite di una colpevole omissione. E così in realtà la vera differenza sta tra la morte naturale, quell’evento che nonostante i nostri sforzi prima o poi tutti ci riguarderà, e la morte artificiale di cui parla Augias e che si chiama più comunemente omicidio. Perché non impedire un evento che si ha la possibilità di impedire significa provocarlo. E dato che la vita è un bene indisponibile, dobbiamo far di tutto per tutelare questo bene. Una volta che l’abbiamo fatto, arriverà la fine naturale di un’esistenza, il termine della nostra terrena parabola. Dunque il malato che non viene curato adeguatamente e si spegne nel suo letto, non è morto naturalmente, ma è morto per volontà dell’uomo che, potendo, non è intervenuto. E quindi il Nostro entra in contraddizione con se stesso: chiama in causa il principio “naturale”, ma appoggia l’eutanasia omissiva che è tutta una faccenda umana, assai “artificiale”.

Qui si annida il secondo errore del sempre elegante Augias: credere che l’eutanasia sia solo quella attiva e non anche quella omissiva. Scrive il Nostro: «Il testamento biologico è una dichiarazione anticipata di volontà nella quale si dichiara se e fino a che punto si desidera essere mantenuti in vita in caso di perdita grave di identità e coscienza. […] L’altro aspetto è l’eutanasia vera e propria che non è solo una sospensione delle terapie, ma un gesto attivo di interruzione della vita». Per ammazzare uno posso sparargli oppure non fare nulla e lasciarlo affogare. Per ammazzare un paziente posso iniettargli cloruro di potassio (eutanasia attiva) oppure non dargli quelle terapie o quei mezzi di sostentamento vitale - come cibo, acqua e ossigeno -  indispensabili per vivere (eutanasia omissiva). Le modalità cambiano, ma l’esito è sempre lo stesso: provocare volontariamente la morte del paziente. 

Spesso poi si alza una cortina fumogena sui concetti propri della bioetica e quindi sulle pratiche mediche per confondere tutto e tutti. Un caso tipico è quello dato dalla differenza tra eutanasia omissiva e divieto di accanimento terapeutico. Sulle pagine fiorentine di Repubblica un collega di Augias, il giornalista Pippo Russo, facendo riferimento sempre alla testimonianza dell’infermiere del Careggi, così scrive: «i confini sono più spesso tracce sfumate di quanto non siano nette demarcazioni. D’incerti confini è fatta l’avventura umana, e in ultima analisi il più incerto è proprio quello finale». Come per dire: quella che voi cattolici chiamate eutanasia omissiva in realtà è doveroso rifiuto dell’accanimento terapeutico. 

Le cose non stanno così. Nell’eutanasia omissiva io non fornisco al paziente quelle cure o mezzi di sostentamento vitale utili a vivere. Nel rifiuto dell’accanimento terapeutico all’opposto io non do quelle cure inutili a vivere. Nel primo caso io cerco la morte astenendomi da atti che potrebbero salvare o prolungare in modo ragionevole la vita di una persona. Nel secondo caso io accetto la morte come evento imminente e ineluttabile, e non mi accanisco nel strappare qualche attimo in più di vita a costo di gravi sofferenze. Si usa quindi in quest’ultimo caso il principio di proporzionalità: su un piatto della bilancia devo mettere i costi – in termini di sofferenza psicologica, fisica, economici, etc. – e sull’altro piatto metto i risultati sperati in quanto ad aspettativa di vita. Per i Repubblichini i confini tra il curare e l’ammazzare sono incerti. Per noi, meno male che costoro sono giornalisti e non medici.