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TRAPELATO IL DOCUMENTO

Eucaristia e peccato pubblico, dove manca la bozza dei vescovi Usa

Emersa sulla stampa la bozza del documento dei vescovi statunitensi sulla coerenza eucaristica, che segue la linea di promuovere ma non condannare, lasciando margini per contrapposte interpretazioni. Sviluppa correttamente l’incompatibilità tra la condizione di peccato grave manifesto e l’Eucaristia, richiamando l’insegnamento paolino. Ma manca totalmente rispetto all’obbligo, da parte del ministro dell’Eucaristia, di rifiutare la Comunione a chi persevera in peccato grave manifesto. Un obbligo sancito dal canone 915 e la cui retta interpretazione era stata già fornita nel 2000 da una nota del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi.

Ecclesia 04_11_2021

Catholic News Agency e The Pillar hanno ricevuto e letto in anteprima la bozza del documento The Mystery of the Eucharist in the Life of the Church dei vescovi statunitensi sulla coerenza eucaristica, un documento di 26 pagine del 24 settembre scorso, oggetto di dibattito e confronto durante la prossima assemblea plenaria della Conferenza Episcopale americana, prevista per il 15-18 novembre.

Alcuni stralci della bozza sembrano tratteggiare piuttosto nettamente l’indirizzo scelto: promuovere ma non condannare, affermare ma lasciando nel contempo ampio margine per contrapposte interpretazioni, avvertire ma non proibire. Una linea, insomma, che se da un lato non permette di gridare “liberi tutti”, dall’altro non intende abbracciare letteralmente il testo normativo di riferimento, ossia il can. 915 del Codice di Diritto Canonico.

La bozza sviluppa correttamente l’incompatibilità tra la condizione di peccato grave e la Comunione sacramentale; pur ricordando, infatti, che ogni peccato «lede la nostra comunione con Dio e con gli altri», vi sono però «alcuni peccati che rompono la comunione con Dio e con la Chiesa». Prosegue la bozza: «Come la Chiesa ha costantemente insegnato, chi riceve la Santa Comunione mentre si trova in stato di peccato mortale non solo non riceve la grazia del sacramento, ma commette il peccato di sacrilegio, perché non mostra la riverenza dovuta al Corpo e al Sangue di Cristo», riaffermando così il noto passo dell’Apostolo (cf. 1Cor 11, 27-29) e allineandosi al can. 916, che vieta di celebrare la Messa e di comunicarsi al Corpo e Sangue del Signore a quanti sono consapevoli di trovarsi in peccato grave.

Ad essere più ondivaga è invece la parte che riguarda l’ormai noto peccato manifesto. I principi ci sono tutti, ma a mancare è il punto decisivo, che riguarda il dovere di rifiutare la Comunione. Secondo quanto trapelato, la bozza affermerebbe l’importanza della dimensione pubblica, della necessaria coerenza tra «la nostra vita personale» e «ogni dimensione della nostra vita pubblica». Parimenti viene confermato che «se un cattolico, nella sua vita personale o professionale, rifiutasse in modo consapevole e con ostinazione le dottrine definite dalla Chiesa, oppure se consapevolmente e ostinatamente rinnegasse il suo insegnamento definitivo sulle questioni morali, diminuirebbe gravemente la sua comunione con la Chiesa». Perciò, «ricevere la Santa Comunione in una situazione del genere non sarebbe in accordo con la natura della celebrazione eucaristica; pertanto la persona dovrebbe astenersi».

A mancare totalmente, almeno per quanto è emerso fino ad ora, è invece l’obbligo da parte del ministro dell’Eucaristia (normalmente il vescovo, il presbitero e il diacono, straordinariamente l’accolito o altri fedeli designati), a norma del can. 915, di rifiutare la Santa Comunione in tre casi specifici: a chi è soggetto ad una scomunica o interdizione ferendaæ sententiæ, cioè esplicitamente inflitta al colpevole, dopo regolare processo canonico; a chi incorre in una scomunica o interdizione latæ sententiæ, ossia vi incorre per il solo fatto di aver commesso una determinata colpa, espressa chiaramente dal diritto (per esempio, l’aborto, l’eresia, l’aggressione al Romano Pontefice, etc.); infine, a quanti perseverano ostinatamente in peccato grave manifesto. In questi tre casi il ministro è vincolato alla norma di non ammettere alla Comunione (ne admittantur).

Il testo legislativo non è rivolto al comportamento del fedele, bensì tratta di un divieto che non può essere violato dal ministro competente, il quale potrebbe essere sanzionato a norma del can. 1389 § 2, che così recita: «Chi, per negligenza colpevole, pone od omette illegittimamente con danno altrui un atto di potestà ecclesiastica, di ministero o di ufficio, sia punito con giusta pena»; oltre che del più generale can. 1399: «Oltre i casi stabiliti da questa o da altre leggi, la violazione esterna di una legge divina o canonica può essere punita con giusta pena, solo quando la speciale gravità della violazione esige una punizione e urge la necessità di prevenire o riparare gli scandali».

Non è sempre facile capire chi rientri nell’ultima delle tre categorie elencate dal can. 915, ma quanto ad un uomo di pubblica notorietà, che sia esso politico, uomo di scienza o di cultura, che altrettanto notoriamente diffonda eresie, abbia apostatato dalla fede o sostenga, a parole e/o con i fatti, posizioni morali condannate dalla Chiesa, non vi è alcun dubbio.

A scanso di equivoci, nell’anno 2000, il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, per evitare che la formula del can. 915 «e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» venisse travisata e svuotata della sua concreta applicabilità, aveva fornito un’autorevole chiarificazione (vedi qui). Anzitutto, per eludere la scusa che non sarebbe possibile conoscere l’imputabilità soggettiva e la condizione dell’anima delle persone nel momento in cui si accostano alla Comunione, si era precisato che il peccato grave doveva essere «inteso oggettivamente». Quanto all’oggettività, è dunque sufficiente che una persona sostenga, pratichi o favorisca pubblicamente l’aborto o l’omosessualità, oppure che neghi la presenza sostanziale di Gesù nell’Eucaristia o la Divina Maternità di Maria Santissima, a prescindere dalla valutazione della sua condizione soggettiva di imputabilità, per portare il ministro alla negazione dell’Eucaristia. Inoltre, «l’ostinata perseveranza» è riconoscibile dal fatto che la «situazione oggettiva di peccato» non è estemporanea, ma «dura nel tempo». La nota precisa inoltre che non sono necessari altri requisiti, quali «atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc.», per constatare questa ostinazione.

Infine, la «situazione di peccato grave abituale» dev’essere di «carattere manifesto», non privato. Una situazione di peccato grave non manifesta impedisce comunque al fedele di accostarsi all’Eucaristia, se prima non si è debitamente confessato (can. 916); ma in questo caso la responsabilità è in capo al fedele e non al ministro, al quale spetta invece di giudicare la situazione oggettiva e manifesta.

La bozza dei vescovi appare pertanto gravemente carente di un aspetto essenziale della coerenza eucaristica. Mentre insiste - giustamente - sulla responsabilità che grava sul fedele che si accosta indegnamente all’Eucaristia, tanto più se tale fedele ha comportamenti pubblici gravemente contrastanti con la fede e la morale cattolica, dimentica però di richiamare le norme della Chiesa che riguardano i ministri dell’Eucaristia, i quali hanno un preciso dovere di rifiutare la Comunione nelle determinate situazioni previste dal Diritto Canonico.

Un documento sulla coerenza eucaristica richiederebbe un’adeguata coerenza canonica.