Etiopia, una guerra sempre più feroce
Sono notizie certe e raccapriccianti quelle relative agli attacchi compiuti dalle truppe tigrine nelle ultime settimane ai danni della popolazione e dei depositi di aiuti umanitari. Molte persone sono morte e le proprietà vengono distrutte. Le Conferenze Episcopali dell’Africa Orientale: appello contro la violenza etnica.
L’Etiopia è in guerra ormai da oltre un anno. Il primo ministro Abiy Ahmed, rientrato dal fronte dove si era recato a novembre per guidare personalmente le truppe governative, assicura di aver fermato l’avanzata verso la capitale Addis Abeba dei combattenti dell’Fplt – il partito espressione dell’etnia tigrina determinato a rovesciare il governo – di averli costretti a retrocedere e di aver ripreso il controllo di alcune città strategiche.
I leader tigrini e i loro alleati tuttavia sostengono di aver riconquistato già almeno una città, Lalibela, nella regione Amhara, patrimonio Unesco per le sue chiese scavate nella roccia. Dicono che i militari governativi e locali hanno lasciato la città a partire dalla mattina del 12 dicembre. Anche la popolazione civile sarebbe in fuga, sostengono dei testimoni. Ma il blackout delle comunicazioni in atto da settimane e l’uso propagandistico dei comunicati sull’andamento del conflitto da parte di entrambi i fronti rende difficile verificare i fatti.
Sono notizie certe, invece, e raccapriccianti quelle relative agli attacchi compiuti dalle truppe tigrine nelle ultime settimane ai danni della popolazione e dei depositi di aiuti umanitari. Secondo un rapporto diffuso all’inizio di dicembre dalle autorità dell’Amhara e dell’Afar, in entrambe le regioni sono state colpite soprattutto le aree rurali. I combattenti hanno distrutto sistematicamente beni e proprietà, si stima per quasi sei miliardi di dollari e quasi di sicuro più ancora. Tre istituti agricoli di ricerca hanno subito danni particolarmente gravi, riferisce il capo dell’ufficio pianificazione e sviluppo dell’Amhara, Animut Belete. Automezzi, trattori, raccolti, i sistemi di irrigazione sono stati rubati o distrutti; il bestiame è stato rubato, ucciso e mangiato. I dipendenti dei tre istituti e i cittadini che vi erano stati formati hanno perso il lavoro e si aggiungono alle centinaia di migliaia di persone che la guerra ha privato di mezzi di sostentamento. Inoltre sono stati danneggiati ospedali, scuole, chiese, moschee, centri commerciali, strade e siti turistici. In precedenza il governo federale aveva rivelato che oltre duemila scuole e circa 1.500 ospedali e ambulatori erano stati danneggiati e saccheggiati.
Pochi giorni dopo, il 9 dicembre, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam) ha annunciato di aver dovuto sospendere la distribuzione di aiuti alimentari in due città del nord, Kombolcha e Dessie, perché i magazzini in cui vengono conservati sono stati attaccati e razziati dai combattenti dell’Fplt che hanno portato via grandi quantità di generi di prima necessità, incluse molte razioni destinate ai bambini denutriti. Un portavoce del Pam ha dichiarato che per giorni il personale è stato sotto la minaccia dei miliziani tigrini: “le violenze contro il personale dei programmi umanitari da parte di truppe armate è inaccettabile. Compromette la capacità dell’Onu e dei suoi partner di prestare assistenza proprio mentre ce n’è più bisogno”. Nel nord del paese, nelle regioni Amhara, Afar e Tigray la guerra ha prodotto circa due milioni di profughi. Per 400mila persone è stato dichiarato lo stato di carestia, ma quelle che hanno urgente bisogno di aiuti alimentari sono più di nove milioni. L’Onu stima che siano denutriti dal 16 al 28 per cento dei bambini e il 50 per cento delle donne incinte e che allattano.
Non è la prima volta che convogli e magazzini della cooperazione internazionale sono attaccati e razziati. Dall’inizio della guerra 26 operatori umanitari sono stati uccisi. Per soccorrere la popolazione in difficoltà occorre recapitare almeno 100 autocarri di aiuti al giorno. Anche dove è possibile continuare a prestare soccorso, le operazioni rischiano di fermarsi per mancanza di carburante e di fondi. L’Onu ritiene che per poter continuare i programmi umanitari c’è bisogno entro dicembre di altri 350 milioni di dollari per il Tigray e di 1,3 miliardi per tutto il paese.
Notizie di aiuti umanitari razziati arrivano anche dal vicino Sudan del sud, dove pace e ricostruzione restano obiettivi lontani e milioni di persone patiscono i danni della guerra scoppiata nel 2013. Il dipendente di una organizzazione non governativa è stato ucciso, diversi civili sono stati feriti e uccisi l’8 dicembre durante un attacco ai depositi di aiuti umanitari nello stato settentrionale di Unity da parte di uomini armati che hanno rubato cibo e altri generi di prima necessità per il valore di 80mila dollari. Sarebbero serviti a prestare assistenza alimentare e sanitaria a 14mila persone per tre mesi, ha spiegato il coordinatore degli aiuti umanitari Onu in Sudan del sud, Matthew Hollingworth. Gli attacchi a scopo di rapina contro presidi e centri di Nazioni Unite e organizzazioni non governative sono in aumento nel paese dallo scorso marzo. Altri operatori umanitari hanno perso la vita. Oltre metà della popolazione (su un totale di circa 13 milioni) ha bisogno di assistenza e la situazione in queste settimane è stata aggravata dalle esondazioni causate dalle forti piogge che hanno distrutto abitazioni e raccolti, ucciso capi di bestiame.
Queste e altre crisi, il moltiplicarsi dei conflitti nella regione, il dramma dei profughi, la minaccia della radicalizzazione e dell’estremismo sono stati oggetto di discussione durante il Forum consultivo annuale della Commissione per la promozione dello sviluppo umano integrale della Associazione delle Conferenze Episcopali dell’Africa Orientale svoltosi dal 29 novembre al 2 dicembre nella capitale del Kenya, Nairobi. “Siamo rattristati dai conflitti e dalle violenze in corso in alcuni dei nostri Paesi, soprattutto in Etiopia. Molte persone sono morte e le proprietà vengono distrutte nelle regioni colpite; la pace che è gloria dell'umanità, merita una possibilità. Esortiamo le parti in conflitto a desistere dalla violenza etnica, dagli arresti arbitrari e a promuovere la coesistenza pacifica” affermano i vescovi nel comunicato diffuso al termine dei lavori nel quale ancora una volta raccomandano alla popolazione e ai governi unione e dialogo: un appello quasi sempre e quasi da tutti ignorato.