Etiopia, è stato di emergenza, il FPLT avanza
La guerra dichiarata dal Fronte popolare di liberazione del Tigray al governo dell'Etiopia compie un anno e il presidente Abiy proclama lo stato di emergenza. I ribelli avrebbero conquistato diverse città, avvicinandosi sempre più alla capitale. Appello delle Nazioni Unite e delle Pontificie opere missionarie in Etiopia per un cessate il fuoco. Ma la guerra sta compromettendo la stabilità e il futuro del Paese.
“La fossa che si sta scavando sarà molto profonda ed è lì che sarà sepolto il nemico. Lo seppelliremo con il nostro sangue e le nostre ossa e renderemo più grande ancora la gloria dell’Etiopia”. Così ha parlato il primo ministro etiope Abiy Ahmed il 3 novembre, a un anno dall’attacco dei combattenti del Fronte popolare di liberazione del Tigray (FPLT) alla base militare governativa di Macallé, azione con la quale i leader Tigrini hanno dichiarato guerra al resto del paese.
Il giorno precedente Abiy ha proclamato lo stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale e il capo dell’ufficio pace e sicurezza di Addis Abeba, Kenea Yadeta, ha dato due giorni di tempo agli abitanti della capitale per registrare le armi in loro possesso o consegnarle al governo oppure a un parente in grado di usarle e tenersi pronti a difendere quartiere per quartiere la città minacciata dall’avanzata delle milizie antigovernative.
Sembra infatti che negli ultimi giorni l’FPLT abbia conquistato diverse città, avvicinandosi sempre più alla capitale. Nelle sue mani sarebbero cadute Kemise e Kombulcha, nello stato Amhara, a poco più di 300 chilometri da Addis Abeba, lungo l’autostrada che collega la capitale al nord del paese. Combattimenti sarebbero in corso per il controllo della città di Mille, che consentirebbe alle forze antigovernative di bloccare la superstrada che porta dalla capitale a Gibuti. Il condizionale è d’obbligo perché l’FPLT annuncia vittorie che il governo smentisce definendole “propaganda” e non è stato possibile finora avere conferme indipendenti perché nella regione in cui si combatte le comunicazioni sono interrotte.
L’FPLT il 5 novembre ha anche annunciato la nascita di una alleanza di nove gruppi antigovernativi, ciascuno dei quali dotato di milizie proprie: si chiama Fronte unito delle forze etiopi federali e confederali e rappresenterebbe l’ampliamento di un patto preesistente tra l’FPLT e l’Esercito di liberazione Oromo. La notizia è stata data dai leader del Fronte nel corso di una conferenza stampa svoltasi a Washington. “Il prossimo passo sarà organizzarsi – ha spiegato Mahamud Ugas Muhumed, leader della Resistenza dello stato Somalo – e deporre il governo attuale o con la forza o tramite negoziati e quindi creare un governo di transizione”. Il governo etiope però ha negato l’esistenza di questa alleanza. Il procuratore generale Gedion Temothewos l’ha definita una “trovata pubblicitaria” e ha aggiunto che alcuni dei gruppi che pretendono di farne parte hanno dei trascorsi di “pulizia etnica”, in particolare l’Esercito di liberazione Oromo che ha accusato di aver commesso dei pogrom nell’ovest della regione Oromo. Il primo ministro Abiy lo ha confermato e ha denunciato che forze straniere stanno combattendo con l’FPLT.
Riunitosi il 5 novembre, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha chiesto alle parti di sospendere i combattimenti e avviare colloqui per giungere quanto prima a un cessate il fuoco. Inoltre ha chiesto di “evitare discorsi che istigano all’odio e incitano alla violenza e alla disunione”. Il governo etiope ha replicato che è sua responsabilità rendere sicuro il paese e ha chiesto ai partner internazionali di sostenere la democrazia in Etiopia: “Non c’è confronto possibile – ha dichiarato in un comunicato – tra un governo eletto democraticamente e un gruppo di terroristi che seminano violenza e distruzione (a giugno il partito di governo ha vinto le elezioni con una maggioranza schiacciante).
Senza entrare nel merito delle cause del conflitto, monsignor Seyoum Fransua Noel, vicario apostolico di Hosanna e direttore nazionale delle Pontificie opere missionarie in Etiopia, il 6 novembre ha lanciato un appello alla preghiera raccolto dall’agenzia Fides: “quando c’è un conflitto – ha detto – le vittime sono i poveri, è necessario che ci sia un dialogo tra le parti per ristabilire un equilibrio sociale. La guerra è inutile, la gente sta soffrendo molto, occorre cercare la pace e la sicurezza. È necessario pregare, avere un dialogo con Dio, la vera pace viene solo da Dio, chiedo a tutti di pregare per questa situazione”.
Addis Abeba è la sede dell’Unione Africana, è lo stato africano che ha stabilito i più stretti rapporti diplomatici ed economici con la Cina. Da molti anni è uno dei paesi al mondo che registrano più elevate crescite del Prodotto interno lordo, con incrementi annui tra l’8 e l’11 per cento.
La guerra ne sta compromettendo stabilità economica e politica. Va ricordato che cosa l’ha innescata. I leader dell’FPLT, il partito dello stato del Tigray che si trova nel nord dell’Etiopia e confina con l’Eritrea, hanno chiamato alle armi i loro miliziani lo scorso anno, dopo mesi di scontri politici con il governo centrale che accusavano di accentrare il potere a discapito degli stati federali. All’origine della crisi c’è il fatto che l’FPLT, che ha governato con mano autoritaria per quasi 30 anni reprimendo ogni dissenso e accentrando nelle proprie mani il potere, non ha accettato di aver perso il controllo del paese quando nel 2018 Abiy, di etnia Oromo, ha assunto la carica di primo ministro. Il nuovo leader ha subito denunciato i governi precedenti di corruzione e violazioni dei diritti umani, accuse del tutto fondate, e ha “rinnovato” ministeri e uffici governativi rimuovendo molti esponenti dell’FPLT. Il passo successivo, nel 2019, è stato fondere i partiti a base etnica della coalizione governativa Eprdf in un unico partito, il Partito della prosperità. L’FPLT si è opposto, ha rifiutato di entrare nel Pp. Ulteriore motivo di attrito è stata la pace siglata con l’Eritrea, che ha meritato il Nobel ad Abiy, vista come una offesa dal il Tigray che ha un lungo contenzioso con il governo eritreo.