Etiopia, continua la guerra tra il governo e il Tigray
Sono decine di migliaia gli sfollati e i profughi in fuga dal Tigray, centinaia i morti tra i civili. Il vero motivo del conflitto tra il Tplf e il governo centrale è il controllo dell’economia nazionale che i leader tigrini provano a riconquistare. Il tutto si inserisce in un contesto, quello africano, dove c’è un problema di governance, come messo in rilievo dall’Indice Ibrahim.
Si continua a combattere in Etiopia (vedi qui). Ormai gli sfollati e i profughi in fuga dal Tigray sono decine di migliaia, centinaia i morti tra i civili. C’è chi accusa di folli massacri le milizie del Tplf, il partito tigrino in rivolta, chi le truppe governative.
La verità è che nessuno risparmia i civili in Africa quando la posta in gioco è il controllo dello Stato. In Uganda il ministro della Sicurezza, Elly Tumwine, ha appena dichiarato che quando una manifestazione di protesta “raggiunge un certo livello di violenza” la polizia ha il diritto di sparare ad altezza d’uomo contro i dimostranti. “Ve lo devo ripetere? La polizia ha diritto di ucciderti e tu muori per niente, a tuo rischio e pericolo”, ha detto il 21 novembre ai giornalisti che chiedevano conto dei 28 morti negli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine verificatisi il 18 e 19 novembre dopo l’arresto del candidato alla carica di presidente Bobi Wine, accusato di aver diffuso il coronavirus durante un raduno politico. A gennaio in Uganda si terranno le elezioni politiche. La pop star Bobi Wine sfida Yoweri Museveni, il presidente in carica dal 1986, anno in cui ha conquistato militarmente la capitale Kampala e ha destituito il dittatore Tito Okello.
Partecipare al potere politico in Africa dà accesso alle risorse economiche di un Paese con facoltà di disporne a discrezione, o quasi; se possibile, è meglio non doverlo spartire. Il Tplf in Etiopia non si rassegna al fatto di aver perso il controllo dello Stato. C’è questo all’origine del conflitto scoppiato il 4 novembre, dopo mesi di crescenti tensioni tra il governo del primo ministro Abiy Ahmed e il Tplf. I tigrini rappresentano soltanto il 6% circa della popolazione, ma hanno controllato la vita politica ed economica del Paese per quasi 30 anni, da quando nel 1991 hanno deposto combattendo insieme al Fronte di liberazione del popolo eritreo il governo militare di Mènghistu Hailé Mariàm, il Negus Rosso. Meles Zenawi, all’epoca leader del Tplf, ha governato con pugno di ferro, reprimendo duramente ogni dissenso, come presidente della Repubblica, dal 1991 al 1995, e poi, come primo ministro, dal 1995 fino alla morte sopravvenuta nel 2012.
Apparentemente lo scontro attuale nasce da rivendicazioni di autodeterminazione del Tigray, ma il vero obiettivo è il controllo dell’economia nazionale che i leader tigrini provano a riconquistare, a ogni costo. Lo stesso obiettivo è all’origine degli scontri politici in Uganda, Costa d’Avorio, Guinea Conakry, Angola, Ghana, degenerati nelle scorse settimane in disordini, manifestazioni di protesta represse da forze dell’ordine con mandato di uccidere. Spiega anche la “disattenzione” ai problemi nazionali delle leadership politiche che abbandonano intere regioni alla violenza di bande armate, organizzazioni criminali, gruppi jihadisti.
Gran parte degli osservatori internazionali, gli esperti delle Nazioni Unite per primi, continuano ad attribuire i problemi del continente africano a forze esterne - la Cina, le multinazionali, la globalizzazione… - e a fattori incontrollabili: fino a ieri, i cambiamenti climatici, oggi la pandemia. Non così i ricercatori della fondazione creata da un miliardario sudanese e che ne porta il nome, Mo Ibrahim. Il 16 novembre la Mo Ibrahim Foundation ha pubblicato l’Indice Ibrahim 2020 della governance in Africa che come ogni anno fa il punto del continente sotto il profilo della democrazia, del buon governo, dei diritti e dello sviluppo umano utilizzando quattro categorie di indicatori: opportunità economiche; sviluppo umano; sicurezza e legalità; partecipazione, diritti e inclusione.
Sulla base dei dati relativi al 2019, il rapporto indica, per la prima volta dal 2010, un peggioramento della situazione generale rispetto all’anno precedente, dovuto essenzialmente all’andamento negativo di tre categorie di indicatori: partecipazione, diritti e inclusione; sicurezza e legalità; sviluppo umano. È dal 2015, spiega il rapporto, che i progressi, pur continuando, hanno incominciato a rallentare, ma fino al 2018 la tendenza era rimasta positiva ed è grazie a ciò che, nonostante le performance negative dell’ultimo anno, il bilancio del decennio trascorso resta positivo: il 61,2% della popolazione africana abita in Stati nei quali la governance complessiva è migliore rispetto al 2010.
Negli ultimi dieci anni il segno positivo dell’indice di governance è stato ottenuto principalmente grazie al settore economico. È da 25 anni in effetti che il prodotto interno lordo del continente africano cresce, con percentuali anche a due cifre in alcuni casi. Ma la crescita economica, le maggiori opportunità economiche, confermate dal costante aumento del ceto medio nella maggior parte dei Paesi, da sole non sono garanzia di sviluppo umano. I dati della fondazione Mo Ibrahim indicano progressi nel settore delle infrastrutture e in quello sanitario, accompagnati da passi avanti nella sostenibilità ambientale. Tuttavia, i traguardi conseguiti - spiega il rapporto - sono minacciati da allarmanti problemi di crescente insicurezza, limitazioni dei diritti umani, riduzione degli spazi democratici e civili, declino della legalità. Almeno metà dei Paesi africani nel 2019 hanno registrato un peggioramento in gran parte degli indicatori e soltanto otto Paesi sono migliorati in tutte e quattro le categorie di indicatori utilizzate.
Nel frattempo, in Africa si sono diffuse aspettative di progresso civile e sociale che sono state ampiamente deluse. Di conseguenza la valutazione che gli africani danno della governance nei rispettivi Paesi è peggiorata a un ritmo accelerato a partire dal 2015 e nel 2019 ha registrato anch’essa il livello più basso degli ultimi dieci anni.
Il rapporto, avverte la fondazione Mo Ibrahim, delinea un quadro del continente che si ferma alla fine del 2019, appena prima che l’Africa fosse colpita dal Covid-19. In termini di diritti, spazi di partecipazione e legalità, l’Africa da tempo registrava un peggioramento e la pandemia non ha fatto che aggravare la tendenza negativa preesistente. L’economia, i settori produttivi al contrario mostravano una costante tendenza positiva, un duraturo progresso. L’impatto della pandemia adesso minaccia anche i traguardi duramente conquistati in quegli ambiti.