Il premio Nobel per la Pace fa la guerra al Tigray
Abiy Ahmed Ali, premier dell'Etiopia, premio Nobel per la Pace per aver posto fine al conflitto con l'Eritrea, ha reagito con la forza alla spinta secessionista del Tigray, regione settentrionale confinante con gli eritrei. La crisi politica è iniziata due anni fa, ma da inizio novembre è diventata un conflitto vero e proprio. E si preannuncia già una grave crisi umanitaria.
In Africa la seconda ondata del COVID-19 non è arrivata. L’epidemia non interferisce con la vita politica, non più di altre malattie. In Costa d’Avorio, Tanzania, Guinea Conakry nelle scorse settimane si sono svolte le programmate elezioni politiche: i candidati hanno organizzato le loro campagne elettorali, il giorno delle elezioni si sono viste le solite file di gente in attesa ai seggi. In Costa d’Avorio e in Guinea prima e dopo il voto si sono verificati gravi disordini, con folle di manifestanti per le vie delle città principali e la polizia che ha usato i lacrimogeni e ha sparato ad altezza d’uomo uccidendo e ferendo diverse persone. In Angola e in Etiopia invece il voto è stato rimandato, ufficialmente a causa del coronavirus. In Angola si sarebbero dovute svolgere le elezioni locali, ma sono state più volte rinviate, l’ultima volta a settembre, e adesso lo sono a tempo indeterminato. A ottobre delle violente manifestazioni antigovernative hanno scosso la capitale Luanda, represse con la consueta brutalità dalle forze dell’ordine che hanno eseguito decine di arresti. Le proteste non autorizzate sono riprese a novembre: per il diritto al voto e contro la corruzione, la violenza della polizia e la disoccupazione. Sono state disperse da agenti in assetto di guerra che hanno attaccato i dimostranti ferendone diversi.
Ma è in Etiopia che si sta registrando la situazione più critica, tanto da temere che degeneri in guerra civile e che coinvolga altri stati del Corno d’Africa. Tutto è iniziato a settembre quando il governo ha deciso il rinvio delle elezioni, la regione del Tigray ha deciso di indirle lo stesso e il primo ministro Abiy Ahmed le ha dichiarate illegali. La prova di forza tra il governo e il Fronte popolare di liberazione del Tigray, Tplf, è continuata nelle settimane successive finché il 4 novembre il premier Abiy ha accusato il Tplf di aver attaccato e occupato una base militare delle truppe federali a Macallè, la capitale della regione, ha definito l’azione, che peraltro il Tplf negava di aver compiuto, un tradimento e ha annunciato una offensiva militare.
L’inizio della tensione tra il Tplf e il governo però risale al 2018, quando Abiy è diventato primo ministro. Per prima cosa il nuovo leader ha denunciato i governi precedenti di corruzione e violazioni dei diritti umani e ha “rinnovato” ministeri e uffici governativi. Di fatto si è liberato rimuovendoli dalle cariche ricoperte molti esponenti del Tplf, che per decenni è stato il partito politico dominante. Poi, nel 2019, Abiy ha deciso di fondere i partiti a base etnica della coalizione governativa Eprdf in un unico partito, il Partito della prosperità. Il Tplf si è opposto alla riforma, che considera una manovra per smantellare la struttura federale del paese, sostenendo che avrebbe diviso il paese e ha rifiutato di entrare nel Pp. Anche la pace siglata con l’Eritrea, che ha meritato il Nobel ad Abiy, è stata vista come una offesa dai leader del Tplf perché il Tigray ha un lungo contenzioso con il governo eritreo.
Le elezioni di settembre hanno fatto precipitare una situazione già compromessa. Il governo ha dichiarato il voto illegale e incostituzionale. Il Tplf da parte sua ha definito illegale e incostituzionale il governo federale. La risposta di Abiy, all’inizio di ottobre, è stata di tagliare i rapporti con il Tigray e la camera alta del parlamento ha votato la sospensione del finanziamento alla regione. Quella del Tplf è stata formulare minacce di secessione in base all’articolo della costituzione che afferma “il diritto incondizionato all’autodeterminazione incluso il diritto di secessione”.
Da quando sono iniziati gli scontri armati tra le truppe federali e quelle del Tigray si contano già decine di morti tra la popolazione civile ed è iniziato l’esodo di decine di migliaia di persone che cercano di sottrarsi alla violenza dei contendenti e ai bombardamenti aerei raggiungendo altre regioni del paese e il vicino Sudan, dove l’11 novembre si contavano già 6.000 rifugiati e le autorità si preparavano all’arrivo di almeno altri 200.000.
Una escalation nel conflitto, forse una svolta decisiva, si è avuta nella notte tra il 14 e il 15 novembre quando le forze tigrine hanno lanciato dei razzi in Eritrea, caduti vicino all’aeroporto della capitale Asmara. Nei giorni precedenti Debretsion Gebremichael, leader del Tplf, aveva dichiarato che le sue truppe stavano combattendo con 16 divisioni dell’esercito eritreo entrate in Etiopia per aiutare le forze federali. Il premier Abiy e il presidente eritreo Isaias Afewerki hanno negato di collaborare, ma ci sono testimonianze di scontri al confine tra i due paesi e di militari etiopi ricoverati negli ospedali eritrei.
Oltre all’eventualità che il conflitto coinvolga l’Eritrea, preoccupa l’impatto sulla regione di una crisi prolungata perché l’Etiopia ha più di 110 milioni di abitanti ed è una delle economie più dinamiche e in rapida crescita del continente africano. Una delle conseguenze prevedibili è che l’Etiopia decida o si veda costretta a ridurre il sostegno militare al governo della Somalia, decisivo nella lotta contro i jihadisti al Shabaab legati ad al Qaeda. Abiy ha già richiamato circa 600 militari che presidiavano il confine con la Somalia. Sarebbe una catastrofe se ritirasse anche il contingente etiope dalla Amisom, la missione di peacekeeping dell’Unione Africana. A dirlo è lo studioso di relazioni internazionali Rashid Abdi: darebbe l’opportunità ai jihadisti di rafforzarsi e riorganizzarsi, con ripercussioni in tutta l’Africa orientale.