Esercitazione su Pavese
«Un paese vuol dire non essere mai soli». Vediamo insieme cosa significasse questo per il Premio Strega del 1950.
Presentazione e commento di un testo
La seguente proposta di analisi non è concepita per la preparazione della prima prova scritta, che con certezza non sarà svolta quest’anno, ma in vista della prova orale. In una parte del colloquio lo studente dovrà commentare un testo poetico o in prosa affrontato durante l’anno scolastico.
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Pavese si profonde in un’attività letteraria instancabile che lo porta al conseguimento del Premio Strega (1950) con La bella estate, scritta nel 1949.
Il 1950 è anche l’anno del suo più noto romanzo, La luna e i falò, in cui Pavese racconta del ritorno dall’America di Anguilla dopo la liberazione e dopo aver fatto fortuna. Anguilla cerca invano nel paese natio delle Langhe il proprio passato e i compagni cari dell’infanzia. Molti, infatti, sono morti. Anguilla rivive nella figura del piccolo Cinto, adottato dal contadino Valino, la sua stessa storia di orfano nell’infanzia. Infine, scopre che quei falò che nella tradizione mitica, ancestrale e contadina rinnovano di anno in anno la fecondità della terra sono nell’orizzonte storico lo strumento della tragica morte durante la guerra, in cui ha perso la vita giovanissima la bella ragazza del paese, Santa, divenuta spia dei tedeschi.
Anguilla si ricorda degli anni trascorsi alla Mora quando, ancora ragazzino, ammirava la bellezza delle figlie del padrone sor Matteo (Irene e Silvia). Allora la loro sorella minore, Santa, era solo una bambina. Durante la guerra era divenuta la ragazza più bella, ma anche una collaboratrice dei fascisti. Catturata dai partigiani, venne fucilata e bruciata.
Ora che Anguilla è tornato capisce che «un paese vuol dire non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Anguilla non può restare, deve ripartire, ora che sa e ha capito.
La maturità dell’uomo è la consapevolezza della vita, l’accettazione del destino che, se non si tramuta in amore, lascia solo tanta tristezza e malinconia. Ripeness is all («la maturità è tutto») è la frase che apre il diario Il mestiere di vivere. Maturità è consapevolezza che si muore e che i propri cari si dileguano anche loro con il tempo.
La luna e i falò
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi.
La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione. Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c'è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l'ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell'ospedale, oltre ai figli che avevano già. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po' cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella - due stanze e una stalla -, la capra e quella riva dei noccioli.
Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell'inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. Da quell'inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi. Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell'ospedale.
Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall'orecchio della nostra capra come le ragazze.
Rispondi alle domande
Comprensione e analisi
1- Riassumi il brano.
2- Quali sono le caratteristiche di Anguilla? Che cosa scopriamo di lui dal brano? Che cosa conosci eventualmente dal romanzo nel suo complesso (puoi far riferimento alla presentazione dell’opera offerta all’inizio dell’esercitazione)?
3- Quali sono le parole più significative del brano (potrebbero essere presenti anche più volte nel testo)? Rintracciale e spiegane il significato e l’importanza ad apertura del romanzo.
Interpretazione
Nella narrativa dell’Ottocento e del Novecento spesso il tema del ritorno a casa è molto frequente. Per quali ragioni secondo te? Scegli le opere che più ti hanno colpito all’interno della letteratura italiana e straniera (puoi avvalerti anche dell’approfondimento che segue).
Approfondimento: La nostalgia di casa ne I Malavoglia
La vita dell’uomo permette viaggi, ma non ritorni. Lo comprendono in maniera differente il nonno e il giovane ‘Ntoni.
Il primo viene portato in ospedale e riceve le visite dei parenti desiderando ritornare alla casa del nespolo, ormai riscattata, per morire nei luoghi dove è sempre vissuto. Un giorno, però, i Malavoglia tornano «col carro di compar Alfio per riprendersi il nonno», ma non lo trovano più. Aveva intrapreso «quel viaggio lontano, più lontano di Trieste e d’Alessandria d’Egitto, dal quale non si ritorna più». Da quel momento in poi la tristezza nei nipoti è tale che ogniqualvolta il discorso cade nei ricordi del nonno cala il silenzio.
Il giovane ‘Ntoni decide, invece, di ritornare a casa una sera, per non essere visto dai compaesani:
Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad aprire, non riconobbe ’Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai. […] Poi ’Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene.
La dimensione è epica, assurge a valore universale ed emblematico della storia di un popolo: il giovane ‘Ntoni, che ha tradito l’ideale dell’ostrica, non potrà più far ritorno a casa. Il silenzio cala a tavola. Uscito dal carcere, ‘Ntoni deve scoprire che ormai tutto è cambiato, tante delle persone care non ci sono più, la mamma, il nonno, la sorella. Quei momenti che nell’adolescenza lo irritavano o infastidivano lo riempiono ora di nostalgia: le serate in cui tutta la famiglia si ritrovava a raccontare storie non possono più ritornare. ‘Ntoni si è pentito, a distanza di alcuni anni ha compreso di aver sbagliato e che non è possibile un futuro diverso lontano da Aci Trezza.
Eppure lui, che ha scelto la strada dell’evasione, ora è un escluso, uno dei tanti vinti dal progresso: non c’è speranza al di là dello scoglio dove l’ostrica si è attaccata, non c’è compagnia umana fuori da quella che la sorte ci ha assegnato nell’ambiente in cui siamo nati. ‘Ntoni chiede perdono, saluta tutti e si ferma in mezzo alla piazza «scura e deserta», solo, ad ascoltare il mare di Aci Trezza che gli brontola «la solita storia».
Nella scena finale leggiamo la descrizione malinconica delle ultime ore della notte che lasciano il posto all’alba, descrizione che avviene attraverso il filtro dello sguardo del giovane che vede anche il mare rivoltarglisi contro.
Il giovane rimane in attesa dell’alba, all’ascolto dei primi rumori del paese. Per lui la vita è cambiata per sempre, mentre in quel paese che lui ha trovato così mutato per sé tutta la vita sembra scorrere naturalmente come se gli anni non avessero avuto la loro influenza. La frase finale è emblematica: «Il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu».