Enea e la profezia delle Arpie, mostri ricorrenti nei secoli
Enea riceve la profezia sul suo viaggio verso le coste italiane, dopo aver creduto che la sua destinazione fosse Creta. Nello Ionio, sulle isole Strofadi, viene scacciato dalle Arpie, mostri mezzi umani e mezzi uccelli, che poi saranno ricorrenti nella letteratura. Ne parla Dante nell'Inferno e poi ancora Ariosto nell'Orlando Furioso.
Partito dalle coste della Tracia, Enea sosta a Delo con i compagni. Lì apprende dal dio Apollo che deve cercare l’antica madre. Enea fraintende le parole sibilline dell’oracolo e crede che la patria a lui destinata sia Creta. In realtà, l’antica madre (gli antenati dei Troiani) è Cortona, città collocata nell’attuale Toscana, luogo natale di Elettra, madre di Dardano, capostipite dei Troiani. Il viaggio di Enea e dei compagni si presenta, quindi, come un ritorno nella terra antica generatrice da cui i Troiani in antico sono partiti: l’Italia, che nell’età augustea non è più solo la parte meridionale della penisola, ma tutto il territorio a sud delle Alpi, che include l’Etruria, la Gallia Cisalpina e tutta la Magna Grecia.
Di notte i Penati appaiono in sogno ad Enea. «Nox erat et terris animalia somnus habebat». Ovvero: «Era notte e il sonno possedeva gli uomini». Se ne ricorderà Dante all’inizio del canto II dell’Inferno quando, rimasto a riflettere e a pensare prima di partire per il viaggio in compagnia di Virgilio, la paura prende il sopravvento:
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro.
Dante si rende conto che affronterà da solo «la guerra/ sì del cammino e sì de la pietade». I Penati rivelano ad Enea che Apollo non ha ordinato di fermarsi a Creta:
V’è un luogo, i Greci lo chiamano con il nome di Esperia,
antica terra, potente d’armi e di feconde zolle; ora si dice che i figli
abbiano chiamato Italia la gente dal nome di un capo.
L’Enotria prende nome da Enotro, greco che si stabilì nella terra tra la Calabria e la Basilicata. Nelle parole dei penati l’Italia viene chiamata anche Ausonia, da Ausone, figlio di Ulisse, capostipite della popolazione degli Ausonii, antichi abitanti dell’Italia. Dunque Esperia, Enotria, Ausonia sono tre termini con cui viene chiamata l’Italia nell’antichità.
Enea si sveglia, adempie ad un rito e avverte il padre che gli ricorda che la sola Cassandra evocava l’Italia e profetava che quella sarebbe stata la loro nuova patria. Così i Troiani ripartono, ma sono sorpresi dalla tempesta e dai fulmini. Il giorno è divenuto notte. Per tre giorni vagano per mare, al quarto giungono sulle spiagge delle Strofadi, isole dello Ionio abitate da Celeno e dalle altre Arpie. Non c’è mostro più funesto di loro, l’ira degli dei non ha inviato ai mortali sulla terra dalle onde dello Stige una calamità peggiore. Si presentano come «uccelli con volti di vergini, fetentissimo scarico/ di ventre, mani artigliate, e sempre pallide in faccia/ dalla fame».
Trovando abbondanza di bestiame, Enea e i compagni lo aggrediscono e allestiscono il banchetto. All’improvviso piovono dal cielo le Arpie, «con grandi urla sbattendo le ali,/ arraffano il cibo e infettano tutto col loro laido/ contatto». I Troiani allora imbandiscono un nuovo banchetto in una cavità della roccia, ma anche lì scendono dall’alto le Arpie, contaminando il cibo con la bocca e con le loro zampe uncinate. Allora Enea ordina di preparare la battaglia contro quei mostri: i compagni nascondono le spade e gli scudi, pronti all’assalto non appena quegli esseri si ripresentino. Al loro arrivo lo scontro inizia, ma gli uccelli non subiscono alcun oltraggio né offesa, si dileguano rapidi lasciando «cibi sbocconcellati e luride impronte». Sola, l’arpia Celeno su una roccia profetizza il futuro danno dei Troiani:
Guerra, dunque? Scannando buoi, abbattendo giovenchi,
ancora guerra volete portare, Laomedonziadi,
e scacciare dal regno dei padri le Arpie senza colpa?
Allora ascoltate, e imprimetevi dentro queste parole:
ciò che il padre onnipotente ha predetto a Febo, e Febo
Apollo a me, io, la più anziana delle Furie, vi svelo:
sull’Italia fate rotta, invocato il favore dei venti:
in Italia giungerete e lì getterete ancore;
ma non prima cingerete di mura la città promessa
che una fame feroce e l’oltraggio di averci aggredite
v’abbian costretto ad addentare le mense e rosicchiarle.
Sentita questa profezia, i Troiani non contano più sulle armi e sulla guerra, ma «solo su voti e su preghiere». Il padre Anchise invoca i numi e «indice i debiti riti». Poi ordina di mollare gli ormeggi e i Troiani abbandonano quelle terre. Nell’episodio virgiliano le Arpie compiono fino in fondo quello che il loro nome annuncia. Potremmo dire che il detto latino nomen omen è pienamente rispettato: nel loro nome è annunciato il loro destino e compito. Il nome «arpia» deriva, infatti, da un etimo greco che significa «ghermire», «portare via», «afferrare».
Le stesse Arpie, protagoniste di questo episodio ambientato sulle isole Strofadi nel terzo libro dell’Eneide, abitano la selva dei suicidi del canto XIII dell’Inferno laddove Dante scrive:
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
Nella Commedia non compare alcun nome delle Arpie, esseri mostruosi strani, commistione varia di diversa natura come nella tradizione precedente. Più di due secoli più tardi, nell’Orlando furioso (1532) di Ariosto il cavaliere Astolfo in groppa all’ippogrifo giunge in Etiopia dal re Senapo drammaticamente colpito dalle Arpie che saccheggiano il suo palazzo ogniqualvolta sia allestito un banchetto. Il re, che conosce la predizione secondo la quale la salvezza verrà dal cielo, accoglie Astolfo come il liberatore. Astolfo fa preparare un banchetto perché le Arpie possano cascare nel tranello. Tutti i convitati si tappano le orecchie. Astolfo suona il suo corno magico terrorizzando le Arpie e inseguendole fino alla grotta che immette nell’Ade. Quando gli orribili mostri si sono rifugiati lì, Astolfo chiude la grotta cosicché quegli uccelli non possano più infastidire il re. Ancora una volta un episodio presente nell’Eneide rivive nella memoria letteraria dei capolavori successivi.