Emanuele Samek Lodovici, una vita per la Verità
Il giovane filosofo morì a Milano il 5 maggio del 1981.
Trent'anni fa moriva prematuramente un grande filosofo cattolico. Che non si era arreso all’egemonia marxista e alla deriva del cattolicesimo. Passione per la Verità, fede profonda, disponibilità all’ascolto e generosità: i tratti di un credente ricordati da suo figlio in un articolo uscito sul n° 33 del Timone, qui completo di bibliografia.
Emanuele Samek Lodovici nacque il 28 dicembre 1942 a Messina (dove il padre, studioso di storia del libro antico e della miniatura e docente universitario, era a quel tempo direttore della Biblioteca), ma visse poi sempre a Milano. Qui morì il 5 maggio 1981, durante un intervento chirurgico, resosi necessario dopo un incidente stradale di cui era stato vittima.
Aveva solo 38 anni, ma già da qualche anno si era guadagnato la stima dei due filosofi cattolici italiani più importanti del ‘900, Cornelio Fabro e Augusto Del Noce. Quest’ultimo (come scrisse in una lettera), lo considerava la più acuta fra le giovani intelligenze di quella generazione, l’unica a cui prefigurava una statura di maestro.
All’età di quattro anni scampò alla tragedia di Albenga: dopo il naufragio di un’imbarcazione carica di bambini, era stato inserito nel gruppo delle piccole salme perché creduto morto, ma lo salvò il provvido intervento di un medico.
Nel 1966 si laureò all’Università Cattolica di Milano con una tesi – apprezzata particolarmente da Sofia Vanni Rovighi, che ne promosse la pubblicazione di un estratto – su Filosofia classica e spiritualità cristiana nel Commento di S. Agostino al Vangelo di S. Giovanni. Vinta una borsa di studio del C.N.R., lavorò dal 1971 presso il Dipartimento di Scienze Religiose della Cattolica; nel frattempo insegnava filosofia e storia nei Licei.
Durante gli anni della contestazione venne sprangato: quasi un vanto per chi non si era mai arreso all’egemonia marxista e alla deriva del cattolicesimo italiano e, senza essere un nostalgico laudator temporis acti, promosse un ritorno alle radici profonde della tradizione occidentale.
Dal 1974 iniziò la collaborazione all’Università degli Studi di Torino con Vittorio Mathieu. Coordinò per Rusconi la collana I Classici del Pensiero, che editava testi filosofici allora introvabili perché invisi all’establishment marxista. Pubblicò nel 1979 due testi (cfr. bibliografia), su Sant’Agostino (con il contributo del C.N.R.) e sulla gnosi moderna, che nel 1980 gli valsero la cattedra di Filosofia morale.
Dalla sua breve e intensa vita emergono la passione per la Verità ricercata con rigore intellettuale, la fede profonda, la disponibilità all’ascolto e la generosità. Lo testimoniano moltissime persone che a lui si riferivano come a una guida e che ancora oggi lo ricordano con grande commozione: l’amore da cui era animato irrora ancora molte vite e vince la morte, come dice quel verso del Cantico dei Cantici (8, 2) che Samek amava molto: «Ponimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore».
Il pensiero. In Dio e mondo Samek considera la grave accusa rivolta da Heidegger alla metafisica, che accusa di aver trascurato la differenza ontologica tra l’Essere e l’ente e di aver reificato addirittura Dio. Per Samek questa critica è importante e colpisce alcune tradizioni speculative e teologiche, ma non la tradizione di Platone e dei neoplatonici, ripresa e rielaborata da Agostino. Samek ne individua il fulcro nella dottrina della partecipazione, in particolare nella sua categoria fondamentale di relazione irreciproca (per via della quale tra principio e principiato si dà uno schema modello-copia in cui la copia è simile al modello, ma non viceversa, e la copia è relazione al modello) e nelle connesse categorie di relazione sostanziale, sostanza relativa, e causalità eidetica. Questo dispiegamento concettuale viene declinato circa il tema della natura di Dio e del rapporto Dio-mondo: Dio è relazionalità, il mondo e il rapporto di Dio col mondo appaiono come relazione. D’altra parte, però, Dio è immanente, ma anche trascendente, perché la relazione che intrattiene col mondo è una relazione irreciproca.
Metamorfosi della gnosi è una profonda e profetica fenomenologia della cultura contemporanea, interpretata in molte sue espressioni come rifrazione di una mentalità, per lo più inconscia: quella della gnosi. Questa mentalità assume dallo gnosticismo antico alcune grandi tesi: il mondo e l’uomo sono oscuri e negativi; la salvezza è possibile perché lo gnostico, il rivoluzionario, è capace di produrre la redenzione e l’uomo nuovo; il diritto e l’ordine morale sono barriere da estirpare. Sintesi di tutte queste tesi è il rifiuto del limite e della finitezza, rifiuto che non riesce a tollerare che l’uomo non possa essere Dio.
Ovvio, pertanto, l’attacco feroce di questa mentalità verso alcuni bersagli: il cristianesimo, per il quale il mondo ha un grande valore, perché in esso si incarna Dio stesso e perché è voluto proprio da Dio; la storia e il passato, perché rammentano la serie dei fallimenti di costruzione dell'uomo nuovo; la tradizione e tutti i suoi supporti vitali che le consentono di essere recepita e trasmessa: come il linguaggio con cui essa parla, la famiglia dove si rinnova, la donna che cresce le nuove generazioni. Samek smonta la strategia della rivoluzione culturale gnostica nelle forme del riduzionismo antireligioso, del prometeismo marxista, della corruzione della memoria storica attraverso la corruzione del linguaggio, della filosofia radical-relativista dei media, della distruzione della famiglia tramite la rivoluzione sessuale e alcune forme di femminismo.
In positivo, negli scritti di Samek si esprime un pensiero forte, nutrito dai classici (in particolare Platone, Plotino e, specialmente, Agostino), collaudato nel confronto con i moderni (specialmente Leibniz, il marxismo e il neomarxismo, la teologia modernista), che rinnova e rivendica l’attualità e la fecondità della tradizione speculativa metafisica nella sua benefica dialettica con il cristianesimo.
In sintonia con l’ermeneutica contemporanea, ma evitandone le derive nichilistiche, per Samek da un lato l’esistenza umana e la conoscenza sono storicamente condizionate dal linguaggio: chi non ha le parole non ha le cose che da queste parole vengono designate; dall’altro, con il linguaggio l’uomo può esprimere la verità e trascendere i condizionamenti storico-linguistici.
In opposizione al pensiero ideologico e al riduzionismo materialistico-scientistico, Samek rivendica l’esistenza della dimensione spirituale della realtà e invita ad ammirare non utilitaristicamente il mondo.
Il pensiero di Samek mostra la consapevolezza delle grandi possibilità della ragione, ma è anche ben conscio dei suoi limiti e della vacuità di risultati quando essa si idolatra illuministicamente per concretizzarsi, per es., nella moderna vita di massa, la quale, «ha affermato la libertà politica da ogni autorità spirituale, finendo per favorire il potere dell’uomo sull’uomo; […] ha affermato la libertà dell’amore dalla morale per vanificarlo nel sesso; ha affermato di lottare contro ogni religione in quanto superstizione, per prepararne una più esiziale, quella della scienza e del successo» (p. 179).
Piuttosto, una ragione accorta deve interagire con la religione per corroborarla e giustificarla razionalmente o per cercarvi le risposte ultime.
Samek, così, propone una “cultura del ricordo” perché, sulla scorta di Eliot, la memoria serve per liberarsi dall’ineluttabilità del presente, dalle menzogne delle ideologie, dall’oppressione dei progetti totalitari e utopici; senza, però, indulgere allo storiografismo, piuttosto mirando all’uomo e alla sua paideia come criterio di selezione e unificazione del sapere, che è autentico solo se “mi rende migliore di quello che sono”.
Samek, pertanto, tesse una riflessione il cui afflato è etico-sapienziale, consapevole, come l’amato Agostino, che in ogni agire umano si esprime la ricerca della felicità, che è il fine ultimo in vista di cui si esplica ogni atto. Il sapere, così, deve plasmare una vita contrassegnata dalle virtù, poiché l’esperienza testimonia la tesi di Aristotele: “nessuna felicità senza virtù, nessuna felicità senza quell’unica attività che è in grado di rendere l’uomo pienamente umano” (La felicità e la crisi della cultura radical-illuministica, p. 34). In tal modo è possibile dare senso al limite e alla sofferenza: “se la felicità è intrinsecamente legata all’esercizio della virtù, allora non si può pretendere che l’acquisto della felicità non passi attraverso lo sforzo, la lotta, e in ultima analisi la sofferenza”.
Non sfugge, certo, la coscienza della precarietà della felicità umana; però, questa “ben lungi dallo spingerci alla tristezza per l’insaziabilità dell’uomo, va tuttavia vista […] ottimisticamente, come l’indizio che è un’altra la felicità conforme al livello spirituale degli esseri umani”, perché, tommasianamente, “ultima hominis felicitas non est in hac vita”.
* pubblicato per gentile concessione de IL TIMONE (n°33, pp.32-33)