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Elisabetta della Trinità, la missione di una santa

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Oggi, 9 novembre, è la memoria liturgica di santa Elisabetta della Trinità, carmelitana scalza francese che rivela il senso di conformare la propria vita a Gesù crocifisso e divenire vera casa di Dio.

Ecclesia 09_11_2024

«Dirò che ho un carattere abbastanza buono. Sono gaia e, lo devo confessare, un po’ stordita. Ho buon cuore. Sono di natura civettuola. Si dice che bisogna esserlo un po’. Non sono pigra “io so che il lavoro rende felici”. Senza essere un modello di pazienza, so generalmente contenermi. Non ho rancore. Ecco il mio ritratto morale. Ho i miei difetti, e purtroppo poche qualità. Spero di acquistarne...». Così, all’età di 14 anni, Elisabetta Catez – poi divenuta nota alla Chiesa e al mondo come santa Elisabetta della Trinità (18 luglio 1880 – 9 novembre 1906) – presentava il proprio ritratto morale, subito dopo aver delineato, con altrettanta semplicità e autoironia, quello fisico.

Già a quell’età, Elisabetta aveva una vita interiore molto profonda, che si rifletteva in un carattere (a poco a poco rinnovato, seppur sempre vivace) capace di stupire coloro che la conoscevano fin dall’infanzia, da quando cioè era «una grande birichina», come l’aveva definita la mamma, Maria Rolland. Il suo animo era stato forgiato da un singolare connubio tra amore e dolore. A 7 anni era rimasta orfana del padre, morto tra le sue braccia a seguito di un improvviso problema cardiaco. Ma la bambina, grazie anche alla saggezza dell’amata madre e all’educazione ricevuta, non solo non si chiuse in sé stessa ma seppe dilatare il cuore, avvertendo pure un senso di responsabilità verso la sorella Margherita, di due anni e mezzo più piccola di lei.

Un cuore dilatato che era come presagito già dal suo nome. Lo stesso giorno della sua Prima Comunione, il 19 aprile 1891, alla sua prima visita al Carmelo di Digione – monastero molto vicino a dove abitava, tanto che sentiva suonarne la campanella – la priora le rivelò infatti che il suo nome, Elisabetta, in ebraico significa «casa di Dio». Questa scoperta colpì molto la bambina, che già in precedenza aveva confidato a un sacerdote il desiderio della vita consacrata.

Nello stesso periodo di quel suo autoritratto fisico e morale, Elisabetta fece un passo decisivo: «Stavo per compiere 14 anni, quando una mattina nel ringraziamento della Comunione mi sentii spinta irresistibilmente a scegliere Gesù per mio unico Sposo, e senza indugio a Lui mi legai col voto di verginità. Non ci scambiammo parole, ma ci donammo l’un l’altra in silenzio, con un amore così forte, che la risoluzione di non appartenere che a Lui divenne in me definitiva».

Questa appartenenza maturò e si precisò presto nella vocazione a entrare tra le carmelitane scalze. Elisabetta coltivò pazientemente questo desiderio, ottenendo infine il permesso della madre, che per anni si era opposta nella speranza che la figlia accettasse una delle diverse proposte di matrimonio e continuasse magari a mettere a frutto il suo grande talento al pianoforte.

Il 2 agosto 1901, a 21 anni compiuti, Elisabetta fu accompagnata dalla stessa madre, dalla sorella e da qualche amica alla porta del Carmelo. Iniziava così il suo postulandato nel Monastero dell’Agonia di Gesù e del Cuore Addolorato di Maria. Il successivo 8 dicembre, il giorno della sua vestizione, le fu dato il nome di Elisabetta della Trinità.

Con il noviziato iniziò per lei un periodo contraddistinto da particolare aridità spirituale, da cui ne uscì solo dopo la professione perpetua dei voti di povertà, castità e obbedienza (11 gennaio 1903), che le rinnoverà e consoliderà la gioia di appartenere totalmente a Gesù e di essere testimone dell’amore trinitario. Per suor Elisabetta questa testimonianza significò abbandonarsi del tutto alla volontà divina, come ben espresso nella sua Elevazione alla Santissima Trinità (21 novembre 1904). Alla fine di questa sua celebre preghiera, dopo essersi rivolta a ognuna delle tre Persone divine, la santa esprime così il suo anelito ad essere vera casa di Dio: «O miei Tre, mio tutto, mia beatitudine, solitudine infinita, immensità in cui mi perdo, mi abbandono a Voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra luce l’abisso delle vostre grandezze».

Di lì a pochi mesi, suor Elisabetta manifestò i primi gravi sintomi di una malattia (individuata nel morbo di Addison) che le causò profonda stanchezza, forti dolori allo stomaco e alla testa, impossibilità di mangiare, bere e dormire regolarmente. La santa si ridusse ad essere pelle e ossa. E le sue sofferenze arrivarono a tanto che una notte, come confidò al medico, ebbe la tentazione di buttarsi dalla finestra: «Ma mi sono detta: non è così che una carmelitana deve soffrire». In questo abisso di dolore, Elisabetta della Trinità trovava la sua forza in Dio e a Lui offriva tutto per la Sua maggior gloria e, quindi, il bene delle anime. Emblematiche le 13 poesie che scrisse alla priora, Madre Germana di Gesù, negli ultimi quattro mesi vissuti nell’infermeria. Ad esempio, questa:

[…] Se tu sapessi, Madre, che soave missione

l’Adorato Maestro un giorno m’ha affidato!

Attirarti dal cielo un torrente di grazie

che ti fissi per sempre nel centro dell’amore.

Egli vuole rinchiuderti dentro quella fortezza,

quell’abisso profondo ch’è il pio raccoglimento […]


Oltre che alla madre in religione, si premurava di manifestare tutto il suo affetto alla mamma naturale, comunicandole le carezze che Dio le faceva: «Egli mi aiuta a soffrire e mi fa oltrepassare il dolore, per riposarmi in Lui».

La sua conformazione a Gesù crocifisso emerge con particolare bellezza in quello che è di fatto il suo testamento spirituale: Ultimo ritiro di Laudem gloriae (così amava chiamarsi ispirandosi a un passo di san Paolo, pur con un piccolo scambio di casi in latino, lingua di cui aveva una scarsa conoscenza). Si tratta di una raccolta di meditazioni – scritte in obbedienza alla superiora e ricche di riferimenti sponsali – per ognuno dei 16 giorni del suo ultimo ritiro (agosto 1906). Elisabetta manifesta tutta la beatitudine che sperimenta l’anima capace di spogliarsi del proprio io per essere abitata completamente da Dio, fino a divenire, già in terra, «lode della Sua gloria». Una missione eccelsa perché si tratta, scrive la santa, di «un’anima riscattata che deve a sua volta riscattare altre anime», imitando Gesù. Quest’anima «cammina sulla via del Calvario, alla destra del suo Re Crocifisso, annientato, umiliato, eppure sì forte sempre, sì calmo, sì pieno di maestà, che va alla Passione per “far risplendere la gloria della sua grazia” (Ef 1,6), secondo l’espressione così forte di S. Paolo. Egli – aggiunge Elisabetta della Trinità – vuole associare la sua sposa alla sua opera di Redenzione e questa via dolorosa, dove essa cammina, le appare come la strada della beatitudine (…) perché il Maestro santo le fa comprendere che deve oltrepassare ciò che vi è d’amaro nella sofferenza per trovarvi, come Lui, il suo riposo» e, in definitiva, la glorificazione ad opera del Padre. Un brano magnifico, in mezzo a tanti altri, che ci svela il senso e la grandezza della sofferenza vissuta in unione a nostro Signore, quindi sublimata in un’offerta di amore. Che salva.

Le sofferenze di Elisabetta della Trinità ebbero fine alle sei di mattina del 9 novembre 1906, un venerdì, all’età di 26 anni. Da lì è iniziato il suo nuovo compito, che lei stessa ha espresso così: «Mi sembra che in cielo la mia missione sarà quella di attirare le anime, aiutandole ad uscire da sé stesse per aderire a Dio e di tenerle in quel grande silenzio, che permette a Dio di imprimersi in loro e di trasformarle in Lui stesso».



EDITORIALE

Elisabetta della Trinità, sfida al relativismo ecclesiale

16_10_2016

La contemplazione del mistero trinitario ricorda quanto sia errata l'idea che in nome di un malinteso dialogo e ancor più malinteso pluralismo, si possa pretendere di togliere al Dio cristiano il suo Volto Trinitario, e pensare di mettere d’accordo tutti i credenti offrendo loro un nuovo, freddo e razionale monoteismo.