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MEDIO ORIENTE

Elezioni in Siria, solo una tappa del lungo conflitto

Le elezioni  sono uno strumento usato da Assad per mostrare una parvenza di normalità, dopo la sua riconquista delle province occidentali. Ma la svolta del conflitto potrebbe arrivare da Teheran, dove l'emiro del Kuwait è in visita.

Esteri 04_06_2014
Poster elettorale di Assad

Alla fine è arrivata anche la proroga di cinque ore per «l'alta affluenza alle urne». Quindi ieri in Siria si è potuti andare fino a mezzanotte ai seggi per esprimere il proprio voto nelle elezioni presidenziali. Comunque la si pensi sul conflitto che da più di tre anni ormai sfigura questo Paese dell'Oriente penso che per tutti sia un po' difficile immaginare gente in coda al buio nel bel mezzo di una guerra per andare a votare. E per di più in un'elezione in cui non esiste alcun dubbio su chi sarà il vincitore.

Eppure proprio questa proroga parecchio improbabile dice molto sulla situazione della Siria oggi. Bashar al Assad con questo voto voleva raccogliere i frutti dell'offensiva militare che nell'ultimo anno l'ha portato a ribaltare sul campo di battaglia i rapporti di forza con le milizie ribelli. E questo ha ottenuto. L'immagine simbolo della giornata sono stati i suoi manifesti elettorali affissi sugli scheletri dei palazzi di Homs, la città fino a poche settimane fa ancora teatro di durissimi combattimenti e invece adesso saldamente nelle mani dell'esercito di Damasco. Quella stessa Homs che - tra i suoi segni di ritorno alla calma - ha visto nei giorni scorsi i cristiani tornare a rimuovere le macerie nelle chiese devastate e spesso anche volutamente profanate dalle milizie islamiste.

Che cosa sono state allora queste elezioni siriane? Una farsa, come le hanno definite molte cancellerie occidentali? Un insulto alle vittime, come sostengono gli attivisti del fronte anti-Assad? Oppure una coraggiosa risposta dei siriani al terrorismo, come le descrive chi da tre anni denuncia le ingombranti presenze jihadiste nella «rivoluzione» siriana? Forse sarebbe meglio provare a fare tutti un passo indietro e vedere queste elezioni per quello che sono: un volto di questa guerra. Ormai dovremmo averlo capito che quello in atto in Siria è un conflitto complesso, con tante forze esterne che sulla pelle di siriani - e giocando sulle alleanze tra forze diverse all'interno della società siriana - perseguono un proprio interesse. Dunque quella andata in scena ieri per Assad è stata semplicemente l'occasione per rinsaldare le proprie posizioni e raccogliere il consenso di quelle aree politicamente a lui più vicine riconquistate con la forza delle armi (non solo siriane ma anche iraniane) nel corso degli ultimi mesi.

Proprio per questo - però - lo spessore di questo voto si ferma qui. Perché non può sfuggire a nessuno che ad Aleppo anche ieri si è votato in un contesto in cui i combattimenti restano furiosi, con l'artiglieria delle formazioni ribelli che proprio contro le urne ha fatto piovere una pioggia di fuoco che l'esercito di Assad non è stato in grado di fermare. Per non parlare delle province orientali che restano saldamente nelle mani delle forze ostili al presidente rieletto plebiscitariamente. Con l'area di Raqqa diventata la sede di quello Stato islamico dell'Iraq e del Levante che si candida a diventare il nuovo Afghanistan, l'accademia del terrore, come sembrerebbe evocare la sua bandiera ritrovata nella borsa dell'autore della strage di qualche giorno fa al museo ebraico di Bruxelles.

Tutto questo per dire che anche la parvenza di normalità ostentata da Assad attraverso queste elezioni è un gigantesco bluff. Perché - nonostante i successi militari degli ultimi mesi - la prospettiva di una soluzione solo militare della crisi siriana resta un sogno molto pericoloso. Oggi Assad è in grado di controllare le maggiori città del Paese e la zona costiera, da sempre la sua roccaforte; con l'aiuto di Hezbollah ha guadagnato posizioni sulla frontiera con il Libano. Ma dal deserto dell'Iraq e dalla Turchia la porta verso la Siria rimane aperta. E finché la situazione è questa il conflitto non può che perpetuarsi, continuando a incancrenirsi.

Proprio per questo forse la notizia più significativa in queste ore non è arrivata tanto da Damasco, ma da Teheran, dove c'è stato un fatto diplomatico di grande importanza: la visita dell'emiro del Kuwait, lo sheikh Sabah al-Ahmad al-Sabah. La prima da quando questi è entrato in carica nel 2006. Ora il Kuwait è da sempre l'alleato più fedele dell'Arabia Saudita, che è il grande nemico di Teheran nel conflitto regionale di cui la guerra in Siria è oggi il volto più cruento. E proprio il no dell'Arabia Saudita alla presenza dell'Iran al tavolo negoziale era stata la premessa al fallimento ai colloqui di Ginevra, nel gennaio scorso. Da allora Assad - l'alleato di Teheran - ha guadagnato posizioni importanti sul campo di battaglia. Dunque ora sono i sauditi a lanciare segnali di un'apertura al negoziato? È presto per dirlo. Ma è difficile pensare a una soluzione del pantano siriano che non passi attraverso un'intesa del genere a livello regionale.