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L'ORA DELLA VERITà

Elezioni americane: una sfida tra ideologia e realtà

Alla fine della campagna elettorale per la Casa Bianca è molto difficile prevedere il vincitore. Di certo c'è che il duello Trump-Harris, con la sua polarizzazione, incarna la divisione di due Americhe che comunicano pochissimo tra loro.

Editoriali 02_11_2024

È giunta alla conclusione una delle campagne elettorali presidenziali più drammatiche nella storia degli Stati Uniti. Una campagna nata come la rivincita della contestata gara del 2020 tra Joe Biden e Donald Trump, ma che ben presto ha preso una direzione imprevedibile con il cambio in corsa del candidato del Partito democratico dal declinante Biden alla vicepresidente Kamala Harris, e con i ripetuti attentati alla vita di Trump, il primo dei quali soltanto per un miracolo non ha avuto come esito la morte dell'ex presidente.

Questi colpi di scena hanno contribuito a rendere ancora più serrata una contrapposizione già radicale sedimentatasi da più di un decennio nel paese tra grandi élite e corporation globaliste da un lato, ceti medi e working class, impoveriti dalla globalizzazione e dalla Grande Recessione, dall'altro: con i Dems, da Obama a Hillary Clinton, a rappresentare i primi, e il GOP sotto la leadership trumpiana a rivendicare la tutela dei secondi.

La sfida del 2024 tra la Harris e Trump è apparsa dunque fin da subito fondata sul tentativo dei due contendenti non tanto di conquistare elettori non schierati e incerti, quanto piuttosto di mobilitare e portare materialmente al voto gli elettori già simpatizzanti della loro parte: soprattutto a partire dalla consapevolezza che la gara, come nelle due precedenti consultazioni, può essere decisa dall'oscillazione di poche migliaia di voti in alcuni Stati in bilico. Fatalmente, essa è stata caratterizzata da ambo i lati da un approccio soprattutto "identitario" - con parole d'ordine indirizzate a segmenti precisi dell'elettorato -, dalla sottolineatura della natura "epocale" dello scontro e da un alto grado di delegittimazione dell'avversario.

Quale bilancio si può formulare, oggi, della riuscita o meno di quegli sforzi e di quell'approccio? Quale dei due contendenti appare, a questo punto, in vantaggio in vista del traguardo? Un giudizio netto, in proposito, è molto difficile, per la complessità estrema del mosaico socio-culturale statunitense e per la sua continua evoluzione, che spesso sfugge agli strumenti anche più raffinati di rilevazione. Possiamo, quindi, per ora solo ragionare sui dati certi o altamente probabili a nostra disposizione.

Innanzitutto, la scelta repentina di candidare Kamala Harris ha portato senza dubbio una ventata di entusiasmo nell'elettorato vicino ai Democratici, precedentemente demoralizzato da quella che sembrava l'ineluttabile sconfitta del presidente in carica. E, simmetricamente, ha scompaginato i piani della campagna di Trump, che era stata impostata da tempo sulla contrapposizione tra una spinta vitale al riscatto del Paese e la senescenza di Biden. In particolare, la Harris, imperniando il suo messaggio essenzialmente sulla falsariga woke dei diritti delle minoranze, ha risvegliato il consenso nell'elettorato femminile, giovanile, afroamericano, con una ricaduta notevole dei sondaggi, che l'hanno vista in estate raggiungere e scavalcare le percentuali di probabili votanti del rivale repubblicano.

Ma per durare nel tempo la mobilitazione identitaria doveva essere prima o poi sostenuta da contenuti programmatici più circostanziati, e dalla definizione di una personalità della candidata che andasse oltre la sua pura dimensione "iconica". E questo si è rivelato ben presto il grave tallone d'Achille della Harris.

Benché scelta, come "male minore" e tentativo di "sparigliare", dal suo partito in luogo di Biden, Kamala non aveva mai precedentemente mostrato una consistenza politica autonoma, ed era stata a suo tempo "cooptata" da quest'ultimo come vice essenzialmente per la sua valenza simbolica di donna "non bianca" e per tenere buona l'ala radicale della sinistra. Messa ora di fronte alla necessità di andare oltre la sua "copertina", ha prodotto nella campagna una performance decisamente scadente, se non avvilente.
Si è dimostrata praticamente incapace di parlare decentemente a braccio senza testi preparati. È sfuggita in maniera imbarazzante al confronto con i media, se non in ambienti estremamente favorevoli e protetti. Sul piano programmatico, poi, non è stata capace di svincolarsi dall'eredità dell'amministrazione di cui fa parte né di rivendicarla pienamente, e, soprattutto sui temi dell'economia e dell'immigrazione, non è sembrata in grado di articolare proposte chiare e riconoscibili, oscillando tra la vaga rivendicazione di una linea più moderata e la pura e semplice polemica ad personam contro Trump. E, quel che è peggio, ostentando un atteggiamento supponente verso gli elettori di quest'ultimo (peggiorato da uscite non richieste di Biden, come l'epiteto di garbage a esso rivolto qualche giorno fa).

Per converso Trump, pur puntando abbondantemente anch'egli su aspetti simbolici e identitari (soprattutto l'onnipresente richiamo patriottico) e pur indulgendo spesso alla "demolizione" della personalità dell'avversaria, quanto meno ha confermato la sua ottima capacità comunicativa ed empatica. Ha coperto tutte le fasce dei media, e soprattutto è riuscito a far passare – anche grazie ad una squadra di collaboratori ben assortita, e all'appoggio di un attore fondamentale nell'economia hi tech come Elon Musk - un messaggio fondamentale di solidità, di ottimismo per il futuro, di realismo e affidabilità nell'affrontare i principali dossier di politica interna ed estera. Conseguentemente, il vantaggio della Harris nei sondaggi si è progressivamente assottigliato, fino a lasciar intravvedere nuovamente, nell'imminenza dell'election day, una leggera prevalenza dell'incrollabile tycoon newyorkese in alcuni tra i principali Stati-chiave, confermata dalle preferenze di scommettitori e grandi investitori.

Questo non vuol dire che, ad oggi, Trump possa considerarsi favorito. La  già ricordata, granitica polarizzazione, la diffusa tendenza a votare per partito preso, i margini strettissimi negli Stati determinanti, e soprattutto il complicatissimo meccanismo elettorale diverso da stato a stato, con la crescente propensione all'uso del voto anticipato e postale che già nel 2020 ha dato adito a molti equivoci, rendono l'esito delle consultazioni un autentico rebus: la cui risoluzione si spera, almeno questa volta, non dia adito a contestazioni e pericolosi conflitti.

Quel che appare certo è che il duello "rusticano" tra la Harris e Trump oggi incarna la divisione tra due Americhe che comunicano ormai pochissimo tra loro: quella dell'ideologia liberal, woke, green, del "dirittismo", degli apparati da una parte, e quella della common people, al di là di divisioni "tribali", dall'altra: desiderosa di pace e di crescita, avversa a una politica "pedagogica" e colpevolizzante, spaventata dagli effetti devastanti dell'immigrazione illegale, favorevole al libero mercato ma anche al protezionismo contro gli effetti devastanti della concorrenza cinese.

Se vincerà la Harris, gli Stati Uniti sono destinati a rimanere per un altro quadriennio in mezzo al guado sui temi che più preoccupano l'opinione pubblica, e di enfatizzare battaglie astratte e divisive, con tutti i rischi di disgregazione sociale connessi. Se prevarrà Trump si profilerà, tra molte prevedibili difficoltà e opposizioni interne, una diversa presenza del gigante statunitense nel mondo: assertiva, in difesa del modello politico occidentale ma pragmatica, realistica e, nelle intenzioni, stabilizzatrice.

 



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