Elefanti e leoni, l'Africa uccide la sua ricchezza
Il 12 agosto si celebra la Giornata mondiale degli elefanti per sensibilizzare l'opinione pubblica internazionale sul fenomeno del bracconaggio, che in Africa sta mettendo a rischio estinzione gli animali che sono anche una fonte di sviluppo.
Oggi, 12 agosto, si celebra la Giornata mondiale degli elefanti, istituita lo scorso anno allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sul fenomeno del bracconaggio che in Africa si accanisce in particolar modo proprio sugli elefanti e sui rinoceronti, due dei cosiddetti “big five”, le cinque specie animali per ammirare e fotografare le quali ogni anno si recano in Africa milioni di visitatori da tutto il mondo (vanno aggiunti i leopardi, i bufali e i leoni, anch’essi minacciati e a cui è dedicato il 10 agosto).
Le cifre dello sterminio sono drammatiche. Negli ultimi dieci anni il numero degli elefanti africani è diminuito del 62% e, se non verranno attuate politiche efficaci di protezione, la specie potrebbe estinguersi entro un decennio. L’8 luglio scorso in Togo è stato arrestato un uomo, Emile M’Bouke, ritenuto responsabile da solo della morte di circa 10.000 elefanti in poco meno di 30 anni. Quanto ai rinoceronti, la situazione è altrettanto allarmante se non di più. Nel 1970 la popolazione totale in Africa ammontava a 70.000 esemplari. Si stima che ne rimanessero appena 25.000 nel 2012, anno in cui in Sudafrica ne sono stati uccisi 668: e dall’inizio del 2013 sempre in Sudafrica ne sono già stati abbattuti 553.
È specialmente il mercato asiatico a sostenere la domanda di zanne di elefante e di corni di rinoceronte: un traffico illegale su vasta scala reso possibile dalla “distrazione”, per usare un eufemismo, e spesso dalla complicità delle autorità preposte a tutelare la fauna selvatica e l’ambiente. In Kenya il 10 luglio sono state confiscate nel porto di Mombasa 3,3 tonnellate di avorio – costate la vita a circa 200 elefanti – rinvenute in un cargo in procinto di salpare alla volta della Malesia. Una settimana prima era stata sequestrata una partita del peso di 1,3 tonnellate. Il dettaglio ulteriormente preoccupante è che le zanne provenivano dalla State House di Mombasa, il palazzo presidenziale.
Proprio il Kenya illustra un effetto del bracconaggio che soltanto le organizzazioni ambientaliste sembrano aver capito e previsto in tutta la sua gravità, dal momento che sono quasi le sole ad agire concretamente contro lo sterminio della fauna selvatica. La diminuzione degli animali che è possibile avvistare durante un safari fotografico va di pari passo con quella dei turisti: nel 2011, ad esempio, nel parco nazionale dello Tsavo East i visitatori erano stati 369.370, nel 2012 le presenze sono scese a 271.373.
Il turismo, con una consistente rilevanza proprio degli introiti derivanti dai safari fotografici, è la seconda maggior fonte di valuta straniera del Kenya dopo l’agricoltura. Quindi tutti coloro che sono coinvolti nel business del bracconaggio – ministri, direttori di parchi nazionali, rivenditori, esportatori e bracconieri – contribuiscono a sprecare e a esaurire una risorsa straordinaria, minacciando una delle più redditizie industrie del paese. Succede lo stesso in molti paesi africani e in altri, dove avrebbe potuto svilupparsi, il settore turistico non è decollato né potrà farlo per un lungo periodo mancando ormai quasi del tutto una delle sue più ricercate attrattive.
Si ripete dunque anche in questo ambito l’errore, costante nella storia dell’Africa indipendente, di preferire, per avidità, un profitto immediato, personale, a scapito dell’interesse nazionale e di investimenti nel medio e lungo periodo. Lo si fa svendendo concessioni di sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo, cedendo a paesi e imprese stranieri i terreni coltivabili, per cifre irrisorie senza preoccuparsi di come verranno sfruttati e, dove ancora sopravvive, decimando la fauna selvatica: ogni animale abbattuto produce un irreparabile danno economico, permanente, sempre più difficile da sanare man mano che gli animali cacciati aumentano con l’intensificarsi dell’attività di bracconaggio.
Esistono inoltre connessioni certe tra le bande di bracconieri e i gruppi criminali e terroristici che imperversano su vasti territori del continente. Come è stato evidenziato lo scorso maggio in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il commercio illegale di avorio e di altri prodotti di origine animale rappresenta una fonte importante di finanziamento per i gruppi armati. Per questo, il bracconaggio oltre a mettere in pericolo delle specie animali e a danneggiare l’economia, costituisce anche un fattore destabilizzante e una minaccia alla pace e alla sicurezz a.A peggiorare le prospettive per l’immediato futuro è il fatto che i bracconieri sono diventati negli ultimi anni più pericolosi, per gli animali e per i guardia parchi, perché, anche loro, come molti gruppi armati, dispongono di armi più potenti e sofisticate provenienti dalla Libia a partire dal 2011, dopo la caduta del colonnello Gheddafi.