Editorialisti a cottimo e strapagati: è la stampa bellezza
Un segno del declino dei giornali è rappresentato dalla scelta degli editorialisti (quasi sempre non giornalisti). Sono sempre gli stessi, in alcuni casi riempiono le prime pagine dei principali quotidiani da venti o trent’anni, sono profumatamente pagati e sottraggono ingenti risorse al lavoro giornalistico.
Il fallimento di molte testate giornalistiche (emblematico il caso dell’Unità, fondato da un sardo e chiuso da un sardo) ha tante spiegazioni, prima fra tutte la mancanza, in Italia, di editori puri che sappiano fare gli imprenditori dell’editoria senza pensare ad altri interessi e senza utilizzare i giornali come strumenti di ricatto e di negoziazione su altri tavoli. La commistione tra politica e informazione, tra finanza e informazione, tra industria e informazione mina alla radice l’autonomia dei contenuti giornalistici e dequalifica in partenza il prodotto editoriale, rendendolo, di volta in volta, strumento pubblicitario, commerciale, di conquista del potere, di manipolazione delle opinioni.
La storica subordinazione della stampa ad altri centri di potere non può continuare ad essere vissuta con rassegnazione, considerato che l’avvento della Rete sta di fatto erodendo gli spazi di mercato dei media tradizionali e confinando i giornali a fogli di partito e a megafoni di lobbies più o meno subdole che dettano le priorità nell’agenda dei temi. I bilanci delle testate cartacee sono sempre più in rosso, il paracadute dei finanziamenti pubblici, che ha funzionato per anni, ora non si apre più e il rischio di cadute rovinose è sempre dietro l’angolo.n Nei giorni scorsi si è parlato dell’annunciata sostituzione di De Bortoli alla guida del Corriere della Sera. Avverrà formalmente nell’aprile 2015, ma intanto è scattata la corsa alla successione. Una volata così lunga rischia di far perdere fiato anche al candidato più accreditato, Mario Calabresi, che dovrebbe lasciare la guida della Stampa (a Umberto La Rocca, direttore del Secolo XIX?) per approdare in via Solferino. Calabresi è il candidato della Fiat, che vorrebbe tenere lontano Della Valle dalla gestione dei giornali. Tutte manovre che nulla hanno a che fare con il bene dell’informazione, con il diritto dei cittadini ad essere informati.
Il condizionamento degli interessi extraeditoriali è una zavorra non più sopportabile per i giornali italiani, che sembrano vivere l’attuale agonia come un destino ineluttabile. Ma per non morire di asfissia le testate cartacee dovrebbero avere il coraggio di cambiare marcia e ripartire dai contenuti, privilegiando le notizie, le competenze, la professionalità. Un segno del declino dei giornali è rappresentato dalla scelta degli editorialisti (quasi sempre non giornalisti). Sono sempre gli stessi, in alcuni casi riempiono le prime pagine dei principali quotidiani da venti o trent’anni, sono profumatamente pagati e sottraggono ingenti risorse al lavoro giornalistico. Senza fare nomi, considerato che l’andazzo è assai diffuso e rischieremmo di dimenticare qualcuno della “corte dei miracoli” e dei “miracolati”, possiamo tranquillamente asserire che il compenso di un editorialista di un quotidiano per un articolo di due-tre cartelle equivale allo stipendio mensile di un redattore ordinario, euro più euro meno.
All’epoca delle “vacche grasse” nessuno si indignava per queste cifre. Oggi, però, con organici ridotti all’osso, collaboratori, spesso molto bravi, pagati pochi euro ad articolo e liste di giornalisti disoccupati sempre più lunghe, sarebbe il caso che qualcuno sollevasse il problema. Un ex presidente del Consiglio, un ex ministro, un ex leader politico, un ex rappresentante delle istituzioni non avrebbero già dovuto dimostrare il loro valore aggiunto quando, con i nostri soldi, hanno ricoperto incarichi di responsabilità? Se le loro erano ricette miracolistiche, intuizioni mirabolanti, perché nella gestione della cosa pubblica hanno combinato disastri? E ora con quale autorevolezza possono pontificare dalle colonne di un giornale indicando la strada a chi governa, a chi gestisce le istituzioni, quando nel recente passato hanno collezionato insuccessi dei quali ancora oggi paghiamo lo scotto? È proprio necessario che le testate cartacee paghino centinaia o addirittura migliaia di euro per ospitare commenti a firma di uno di questi “premi Nobel”? Non sarebbe più costruttivo e utile per i lettori, oltre che più rispettoso della manodopera giornalistica, utilizzare quelle risorse finanziarie per inchieste ben condotte, per incentivare i redattori a lavorare con maggiore serietà e con aspirazioni di crescita professionale?
Ci sono quotidiani che hanno a libro paga migliaia di editorialisti. Le loro considerazioni, le loro “illuminanti” argomentazioni a volte risultano di una banalità sconcertante e potrebbero essere tranquillamente svolte, peraltro con maggiore brillantezza, dai giornalisti, ai quali spetta al massimo l’umiliante onere di confezionare titoli accattivanti per quei contributi, spesso anche soporiferi. I giornali continuano a perdere copie, sono fatti sempre peggio e spesso servono, più che a informare l’opinione pubblica, a lanciare messaggi in codice fra gli addetti ai lavori. Gli editorialisti, alcuni dei quali già esponenti o consulenti di governi, banche, consorterie finanziarie e industriali, scrivono per compiacere gli editori e sono complici di questo sistema antieconomico e per nulla meritocratico che sta uccidendo l’editoria. È ora che qualcuno si svegli, prima che sia troppo tardi.