Ecco perché questa riforma va respinta
Soffermiamoci su alcuni contenuti della riforma costituzionale voluta dal governo Renzi perché siano chiari i motivi che ispirano il convinto “No” che esprimeremo al referendum di ottobre. Primo fra tutti, il fatto che la riforma innescherebbe un’ulteriore spirale di controlli centralizzati e di deresponsabilizzazione generale.
Un giorno dicendo e un altro negando che quello per la riforma costituzionale è in realtà un voto pro o contro di lui, e promettendo incautamente di tornare a vita privata in caso di sconfitta, Matteo Renzi ha creato un pasticcio inestricabile. É chiaro che si può essere contro tale riforma per motivi opposti: o perché si pretende che l’attuale Costituzione sia «la più bella del mondo», oppure, come ad esempio noi, perché si ritiene che la riforma Renzi-Boschi peggiori una Costituzione già pessima.
Conseguentemente quello del “No” al referendum in programma a ottobre è uno schieramento che non ha nulla a che vedere con un’eventuale futura maggioranza politica alternativa all’attuale governo. E ciò vale in modo analogo per lo schieramento opposto. Quale che sia la sua collocazione, con riguardo a tale referendum ognuno si trova perciò ad avere dei compagni di strada molto imbarazzanti.
Al di là dell’oscillante tentazione di Renzi di giocare la carta del referendum ad personam, resta il fatto che comunque la sua riforma è destinata a durare ben di più della sua permanenza a Palazzo Chigi. La posta in gioco, insomma, è più grande di lui. Quindi, a nostro avviso, si deve in ogni caso scegliere che cosa votare al referendum di ottobre pensando alla Costituzione e non alla sorte politica di Renzi. D’altra parte, chi può davvero credere che una vittoria del No” al referendum basterebbe a farlo uscire di scena? Maestro insuperabile come è nel voltare la frittata ogni volta che gli conviene, ci metterebbe un attimo a spiegare a colpi di “tweet” che il Paese non può fare a meno di lui.
Prescindiamo dunque dalla sorte di Renzi, del quale di certo non ci libereremo presto, per tornare al punto, ossia alla riforma costituzionale in ballo. Riservandoci in seguito ulteriori approfondimenti vogliamo qui soffermarci in modo specifico su alcuni suoi contenuti perché siano chiari i motivi che ispirano il convinto “No” che esprimeremo al referendum di ottobre. Volendo mettere mano all’attuale crisi dello Stato moderno, di cui quella dello Stato italiano è soltanto un caso (seppure per noi il più importante per ovvi motivi), si aprono in sostanza due vie: da una parte quella dell’accentramento del potere e dall’altra quella dell’autonomia responsabile della persona e perciò delle comunità sia sociali sia territoriali.
La prima prende le mosse dalla speranza, non si sa come motivata, che un nuovo accentramento, più efficiente dell’attuale, ci faccia uscire dall’odierno circolo vizioso di una spesa pubblica dilagante cui corrisponde un’altrettanto dilagante crescita dell’inefficienza della pubblica amministrazione. La seconda -- che s’ispira al principio di sussidiarietà e a tutto ciò che lo precede -- prende le mosse da una scommessa sull’autonomia responsabile della persona; e quindi sulla responsabilità congiunta, ad ogni livello di governo, sia della spesa sia del prelievo fiscale con cui alimentarla.
In piena armonia con la filosofia e la prassi dell’attuale governo, la riforma costituzionale che ci viene proposto di approvare nel prossimo ottobre è tutta all’insegna della prima di queste due alternative. Perciò siamo fermamente per il “No”: perché siamo convinti che innescherebbe un’ulteriore spirale di oppressivi controlli centralizzati e di deresponsabilizzazione generale. Un processo perverso che da una parte non fermerebbe la crescita della spesa e dall’altra sempre più sottrarrebbe risorse all’economia produttiva senza affatto aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione.
Si tenga, infatti, conto che la riforma non riguarda semplicemente il Senato, come per mesi si è voluto far credere. Implica la modifica di un terzo circa degli articoli della Carta costituzionale facendo tornare lo Stato italiano a quel centralismo neo-napoleonico su cui così facilmente si innestò il fascismo nei primi Anni ’20 del secolo scorso. Beninteso, non stiamo dicendo che Renzi tenda a essere un nuovo Mussolini (anche se, seppur in versione moderna, la sua mimica e la sua retorica hanno dei preoccupanti punti di contatto con quelle mussoliniane). Stiamo però affermando che in un’epoca come la nostra, venata da tendenze neo-autoritarie, prima di procedere a testa bassa verso la centralizzazione del potere è meglio pensarci due volte.
Delineato tale quadro generale, cominciamo ad andare a vedere i contenuti della riforma nello specifico. Si è fatto in primo luogo un gran parlare del problema del “bicameralismo perfetto”, ossia dell’esistenza di due rami del Parlamento, la Camera e il Senato, con le medesime competenze. Non è un problema senza alcun precedente nella storia: ci sono ottimi esempi consolidati di bicameralismo efficiente e utile, e nient’affatto “perfetto”: in primo luogo quello degli Stati Uniti. Sarebbe bastato tenerne conto. Cavalcando disinvoltamente pro domo sua la tigre dell’ “anti-politica”, Renzi ha fatto invece del Senato il capro espiatorio di tutti i mali della democrazia italiana.
Il risultato è un pasticcio che, senza affatto togliere il rischio di conflittualità tra le due Camere, vuole fare del Senato una specie di nuova Conferenza Stato-Regioni, ossia nelle intenzioni del governo la cinghia di trasmissione della sua volontà ai territori. Nella sua organicità è poi impressionante il processo di generale accentramento dell’intera macchina istituzionale del nostro Paese. In quanto organi elettivi le Province vengono abolite, ma restano le prefetture, il che fa del prefetto il dominus non solo degli uffici statali ma anche dei Comuni situati nella sua circoscrizione.
Le Regioni non solo perdono quasi tutta la loro autonomia, riducendosi in pratica a organi esecutivi delle politiche del governo nazionale, ma con la riforma viene pure introdotta una “clausola di supremazia” in forza della quale Roma può intervenire anche in quel che resta delle loro competenze “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o la tutela dell’interesse nazionale”. Potremo continuare l’analisi della riforma in future occasioni, ma già quel che abbiamo ricordato qui basta per capire che non si lascia più ai cittadini il diritto democratico di premiare o di punire con il voto chi governa i loro Comuni e le loro Regioni.
Non ce n’è bisogno: a tutto pensa in teoria il Grande Fratello che sta a Palazzo Chigi, ritenuto a priori custode indiscutibile del bene comune; e poi in pratica a suo nome l’alta burocrazia ministeriale e gli interessi “nazionali” che si fanno schermo dietro di lui. E noi al referendum di ottobre dovremmo votare “Sì”?