Ecco perché non c'è differenza tra Isis e Arabia Saudita
Con l’Arabia Saudita, così come con l’Iran, l’Occidente ha scelto di aprirsi al relativismo circa la sacralità della vita umana e dei diritti umani. Lo fa nel momento in cui pone differenze e distinguo tra l’Isis e la monarchia saudita, dove si applicano gli stessi principi teologici e giuridici dello Stato Islamico.
«Se Daesh e Riad appaiono simili quanto al velo di segretezza che avvolge i processi, il paragone però si ferma lì. Non essendo uno Stato, Daesh “non ha alcuna legittimazione a decidere di uccidere la gente”, come ebbe a dire il portavoce del ministero saudita degli Interni. In pochi casi, questa “differenza” ha permesso di salvare qualche condannato, come il blogger Raif Badawi, condannato a mille frustate. In molti altri casi, le pressioni internazionali sono sembrate invece senza effetto. Nonostante questo, ogni paragone tra il sistema giudiziario saudita e la presunta “giustizia” amministrata da banditi del Daesh è fuorviante. All’ombra del Califfato, infatti, abbiamo assistito a esecuzioni sommarie di civili e militari, allo sgozzamento di ostaggi locali e occidentali, allo sfollamento di intere comunità cristiane e all’abuso sessuale contro ragazze e madri di confessioni ritenute “eretiche». Così il giornalista e docente universitario Camille Eid ha commentato, sul sito di Avvenire, la citazione in giudizio di un utente Twitter da parte del ministero della Giustizia saudita poiché, a seguito di un’ennesima condanna a morte per apostasia, ha scritto che si tratta di una sanzione ‘in stile Daesh’.
Mi permetto di dissentire, seppur parzialmente. Se è vero che lo Stato Islamico non è riconosciuto a livello internazionale in quanto Stato, è ancor più grave che a uno Stato riconosciuto a livello internazionale, che nel 2014 è entrato a far parte del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, insieme alla Cina, il cui ambasciatore presso le Nazioni Unite, Faisal bin Hassan Trad, che di recente è stato chiamato a presiedere un comitato di diplomatici incaricato a scegliere i candidati a ruolo di “esperti delle Nazioni Unite” da inviare in quei Paesi dove l’Onu ritiene che i diritti umani vengano violati, sia concesso di pubblicare, nel maggio scorso, un bando sul sito del ministero per l’amministrazione per otto persone che «eseguano le condanne a morte secondo la sharia islamica dopo che siano state ordinate da una sentenza legale», sia concesso di applicare nel XXI secolo la più rigida interpretazione del diritto penale islamico. Non credo nemmeno che si possa fare affidamento a un processo “giusto” in un Paese in cui il concetto stesso di giustizia si basa sull’interpretazione più rigida e conservatrice della sharia.
D’altronde, Abd Allah ibn Salih al-Ubaid, ex presidente della Società nazionale per i diritti umani in Arabia Saudita, dichiarò quanto segue: «Ci sono persone che considerano alcune questioni una violazione dei diritti umani, mentre noi le riteniamo una salvaguardia dei diritti umani – ad esempio le esecuzioni, l’amputazione della mano del ladro, oppure le frustate a un’adultera. Ci sono persone che ritengono che tutte le punizioni coraniche violino i diritti umani. […] Noi, in Arabia Saudita, siamo parte del mondo per quanto concerne i principi generali dei diritti umani. Ma nel nostro Paese rispettiamo le regole della sharia, sicché ciò che ad altri sembra una violazione dei diritti umani è invece per noi un dovere nei confronti di chi ha commesso un reato o un peccato». Nell’ottobre scorso l’ambasciata saudita nel Regno Unito ha pubblicato, a seguito dell’ennesima mobilitazione internazionale a difesa del giovane saudita sciita Ali Nimr condannato alla crocifissione, un tweet molto esplicito e che chiarisce le proprie posizioni: #ArabiaSaudita rifiuta ogni forma di interferenza negli affari interni #AliNimr.
É vero anche l’Arabia Saudita appartiene alla coalizione internazionale che combatte contro lo Stato Islamico, quindi sta apparentemente dalla parte dell’Occidente, ma è altrettanto vero che nel 2013 Abdul Aziz bin Abdullah, Gran Mufti dell’Arabia ha dichiarato che «è necessario distruggere tutte le chiese della regione», è altrettanto vero che i cristiani che lavorano nel Paese sono costretti a vivere “nelle catacombe”, è altrettanto vero che le donne – seppur la loro condizione sia leggermente migliorata negli ultimi anni – vivono in una condizione di discriminazione. Ma in modo particolare è altrettanto vero che i punti di riferimento teologici e giuridici sono gli stessi dello Stato Islamico e che entrambe le realtà invocano la “giustizia” in base alla sharia. D’altronde è noto che anche nei Paesi in cui la sharia, seppur in versioni più edulcorate e riformate, è «la fonte principale della legge» si hanno problemi nell’applicazione e nella riforma, ad esempio, del diritto di famiglia.
Ad esempio, Paesi come l’Egitto e il Marocco non sono riusciti ad abolire la poligamia, ma solo a limitarla e a renderla pressoché impraticabile proprio per il legame indissolubile con la sharia e la Tunisia, che nel 1956 ha promulgato il Codice della Statuto Personale in cui la si vietava, in nome di un’interpretazione moderna e aperta delle fonti della tradizioni islamica, è stata più volte accusata, non solo dallo Stato Islamico, ma anche dal teologo della Fratellanza musulmana Yusuf Qaradawi, di «miscredenza» e «ipocrisia manifesta». Non ritengo che, soprattutto in questo preciso momento storico, sottolineare le differenze tra Stato Islamico e Arabia Saudita sia utile né tantomeno vantaggioso. Ritengo che invece sia giusto promuovere quelle voci che dall’interno del mondo islamico combattono chiunque, dal califfo al-Baghdadi al Custode delle Due Sante Moschee saudita, non rispetti la sacralità della vita, che propongono l’abolizione della sharia per salvare l’islam e i musulmani.
Nel 2007 il tunisino Lafif Lakhdar scriveva: «Per riconciliarsi con il mondo i musulmani devono abbandonare il jihad a favore della politica, devono abbandonare il monologo interiore a favore del dialogo con l’altro, abbandonare la sharia a favore della legge positiva, devono abbandonare il califfato a favore dello Stato di diritto, abbandonare l’accusa di apostasia nei confronti della modernità e del mondo che l’ha prodotta a favore della riflessione». Ebbene, tutto questo non viene certo favorito “scagionando”, seppur parzialmente, l’Arabia Saudita o avviando il dialogo interreligioso con istituzioni ad essa legate, come è nel caso del Centro re Abdulaziz per il dialogo interculturale e religioso a Vienna che vede la Santa Sede come membro osservatore. La strada è lunga e tortuosa, ma solo l’onestà di ammettere un problema può condurre alla sua soluzione.
Quindi è solo ammettendo che con l’Arabia Saudita, così come con l’Iran, l’Occidente ha scelto di aprirsi al relativismo circa la sacralità della vita umana e dei diritti umani, che si potrà porre questi Paesi di fronte alla triste realtà al loro interno, usando proprio quegli strumenti che il riconoscimento a livello internazionale mette a disposizione.