Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Francesca Saverio Cabrini a cura di Ermes Dovico
CONTINENTE NERO

Ecco perché in Africa il jihad vince

Da due mesi c’è un crescendo di attacchi islamisti in Africa, malgrado 18 anni di interventi militari anche occidentali per sconfiggere i terroristi. Colpa di malgoverno, corruzione, tribalismo, vere zavorre per lo sviluppo dell’Africa. Gli Stati Uniti si arrendono e abbandonano il continente.

Esteri 03_02_2020 English Español
Militari americani dell'AfriCom addestrano forze anti-terrorismo in Niger

Dallo scorso dicembre in Africa sub-sahariana i gruppi jihadisti legati ad al Qaida e all’Isis hanno intensificato le loro attività. In Africa orientale al Shabaab ha messo a segno cinque attentati nella capitale della Somalia, Mogadiscio, e tre attacchi, incluso uno a una base militare, nel vicino Kenya. In Africa occidentale e centrale i Paesi più colpiti sono stati Nigeria, Niger, Mali e Burkina Faso.

Nel clima di allarme che questa ondata di attacchi ha creato, alla vigilia di Natale è arrivata la notizia che gli Stati Uniti hanno intenzione di ritirare le loro truppe dall’Africa occidentale: i 6.000-7.000 soldati per lo più impegnati nell’Africa sub-sahariana e i 500 militari delle truppe speciali dispiegate contro al Shabaab in Somalia. A dare l’annuncio è stato il segretario alla difesa Mark T. Esper. La principale missione delle truppe americane, ha spiegato, è addestrare e assistere le forze di sicurezza africane in lotta contro il jihad. Ma è il caso di valutare l’opportunità di combattere dei gruppi armati privi di capacità e intenzione di attaccare gli Stati Uniti sul loro territorio. Cosa più importante, ha chiarito il Segretario alla Difesa, per gli Stati Uniti è diventata una priorità interrompere “18 anni di attività anti-terroristiche in regioni infestate da miliziani e combattenti dove migliaia di militari americani operano nel tentativo di mantenere un minimo di stabilità senza prospettive reali di soluzioni definitive”. Il presidente Donald Trump ha più volte promesso di mettere fine alle “guerre senza fine” e l’anti-terrorismo in Africa ha effettivamente dimostrato di essere una “guerra interminabile” senza “prospettive di soluzioni durature” nonostante l’ingente investimento di risorse finanziarie, tecnologiche e umane messe a disposizione dalla comunità internazionale.

Fin dal 2001, quando gli Usa hanno avviato le prime missioni anti-terrorismo africane, sono stati evidenti i problemi, tuttora irrisolti, che avrebbero rallentato e in parte fatto fallire la lotta al jihad: estesi territori fuori controllo, frontiere permeabili, instabilità politica, conflittualità etnica e religiosa e, soprattutto, corruzione, onnipresente e senza freni.

Corruzione e malgoverno sono i conclamati fattori chiave di insuccesso. Milioni di dollari destinati all’addestramento e all’equipaggiamento militare vengono sistematicamente stornati, lasciando le truppe non solo sguarnite, ma anche demoralizzate e demotivate. Ma spreco, incuria e accaparramento ostentati delle risorse nazionali, l’evidenza che leader e governi sono al di sopra della legge, le loro violazioni dei diritti umani, le ingiustizie legittimate creano tra la popolazione, soprattutto tra i giovani, sfiducia, risentimento e frustrazione, alimentando, più ancora che la povertà e la disoccupazione, consenso e adesione ai gruppi jihadisti nei Paesi a maggioranza sia musulmana che cristiana. Strettamente interconnessi con la corruzione sono il tribalismo e le attività illegali: sequestri, traffico di emigranti, di droga, armi, pietre preziose, prodotti di animali frutto di bracconaggio... Il tribalismo favorisce il jihad rafforzando il senso di appartenenza religiosa. Le attività illegali e criminali lo finanziano. Il fallimento dello stato nel garantire diritti fondamentali, servizi e sicurezza, oltre a creare profonde disuguaglianze economiche e sociali, produce un vuoto di cui i jihadisti approfittano.

Dunque gli interventi militari possono al massimo contenere l’islamismo, ma, da soli, non bastano a sconfiggerlo, a maggior ragione se devono dipendere in gran parte da risorse straniere. Dopo 18 anni di interventi – forze militari regionali, missioni di peacekeeping dell’Onu e dell’Unione Africana, operazioni militari americane e francesi – i principali gruppi jihadisti sono ancora attivi e altri ne sono nati. Il caso di Boko Haram è emblematico. “Sconfitto tecnicamente” nel 2015, quando è stato costretto a ritirarsi dai territori e dalle città conquistate, si è diviso in due gruppi: il Jas, più piccolo, guidato dallo storico leader Abubakar Shekau, ha le sue basi nella foresta di Sambisa; l’Iswap, legato all’Isis, guidato da Abu Musab al-Barnawi, si è riorganizzato sulle rive e le isole del lago Ciad dove sta creando un vero e proprio proto-Stato. Impegnandosi a riempire un vuoto di governo e amministrativo, ha conquistato tra la popolazione abbandonata a se stessa, priva di servizi e infrastrutture, consensi e sostegno come Boko Haram non era mai riuscito a fare. Benché i metodi dell’Iswap siano spesso violenti e autoritari, offre agli abitanti della regione più di quanto ricevano dalle strutture di parentela e dai rispettivi governi. Protegge dai furti di bestiame, costruisce pozzi, garantisce quel tanto di ordine e sicurezza necessari perché la gente possa lavorare e condurre una vita sociale, assicura persino servizi sanitari di base. Le comunità del lago lo apprezzano, disposte a pagare tributi dal momento che in cambio ottengono qualcosa di concreto.

Sradicare l’Iswap e altri gruppi jihadisti non sarà facile. Gli Stati Uniti lo hanno capito e intendono lasciare ad altri l’onere di riuscirci.