Ecco l’utero in comodato, con diritto di recesso
Maternità in comodato d’uso. E l’ultima trovata giudiziaria, inventata dalla Corte d’Appello di Milano che ha vietato la maternità surrogata perché contro la dignità della donna e frutto di sfruttamento del corpo. Ma se la surrogazione fosse a titolo gratuito, allora, per i giudici la cosa si potrebbe anche fare.
La Corte d’Appello di Milano si è inventata la maternità in comodato d’uso. Nel giudicare una vertenza che vedeva coinvolta una coppia italiana la quale aveva commissionato a una donna indiana un bambino tramite maternità surrogata, i giudici della sezione famiglia hanno dichiarato «irriducibile il contrasto tra la maternità surrogata e il principio di dignità personale della gestante con riferimento alla mercificazione del suo corpo se degradato a solo strumento di procreazione “per contratto”, che la obbliga a disporre del proprio corpo come mezzo per fini altrui e a consegnare il nato ai committenti».
In breve la maternità non è un servizio a pagamento e quindi la Corte non ha fatto altro che richiamare l’art. 12, comma 6 della legge 40/2004 che vieta la maternità surrogata. Tale divieto per i giudici è teso a «garantire la tutela di fondamentali diritti della donna, violata nella dignità se vincolata in una “gestazione per altri” attuata nella logica dello sfruttamento e commercializzazione del suo corpo, particolarmente evidente nelle donne più vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo».
Fin qui dunque tutto bene, a parte il fatto che della dignità violata del nascituro manco si fa cenno. Ma se la surrogazione fosse a titolo gratuito? Il presidente Bianca La Monica e i giudici Patrizia Lo Cascio e Daniela Troiani rispondono che «potrebbe non ravvisarsi lesione della dignità della donna qualora le fosse consentito, con scelta libera e responsabile, di accedere e dare senso, in condizioni di consapevolezza, alla pratica “relazionale” della gestazione per altri, in un contesto regolamentato in termini non riducibili alla logica di uno scambio mercantile». Tra le righe, seppur in modo implicito, si può intuire che se passiamo dall’utero in affitto all’utero in comodato d’uso a titolo gratuito la maternità surrogata potrebbe essere anche legittima.
La gratuità della cessione però sarebbe consentita solo a patto che nel contratto sia presente una clausola di recesso. Lecita dunque la maternità per terzi, aggiunge la Corte, se esistesse «la possibilità di tenere per sé e riconoscere il bambino, non potendo imporsi alla donna per contratto (né per legge) di usare il proprio corpo a fini riproduttivi, e di essere o non essere madre». Insomma, bene l’utero in affitto purché sia previsto un diritto di ripensamento.
Quale giudizio morale dare sulla maternità surrogata gratuita e su questo diritto di recesso? In prima battuta ricordiamo che si arriva alla maternità surrogata quasi sempre tramite la fecondazione artificiale. E già qui potremmo fermarci nel giudizio di carattere morale: non essendo lecita la fecondazione artificiale, la strada verso l’utero in affitto, dal punto di vista etico, è già sbarrata. Inutile proseguire oltre.
Ma prendiamo la pratica della maternità surrogata gratuita di per se stessa, facendo finta che non sia preceduta da nessuna tecnica di fecondazione extracorporea. Tale pratica rimane illecita per due motivi. In primo luogo il figlio, come ricordava Giovanni Paolo II, ha il diritto nativo di essere educato dai propri genitori biologici. Anche la consegna a titolo gratuito del bambino non rispetterebbe tale diritto. Solo nel caso in cui i genitori si dimostrassero incapaci di soddisfare il compito educativo, nel rispetto del principio di sussidiarietà e per il maggior bene possibile del minore, questi potrebbe essere dato in adozione o in affidamento.
Ma non è il caso dell’utero in affitto. Infatti, nella maternità surrogata si cede il figlio non perché impossibilitati nell’educazione, ma perché il figlio è stato concepito espressamente e in modo preordinato con l’intento di consegnarlo a terzi. Un figlio non amato e voluto per sé, ma commissionato e voluto da altri. L’illiceità dell’atto si situa perciò nel fine perseguito: non si concepisce il figlio per amarlo e quindi educarlo – nel rispetto quindi del diritto del figlio ad essere cresciuto da chi lo ha concepito - bensì per alienarlo. Va da sé che se la gestante non è madre biologica del nascituro, questi – una volta nato – deve essere educato dai suoi veri genitori biologici.
Nella maternità, dunque, si mette al mondo un figlio per amarlo e quindi crescerlo; nella maternità surrogata si produce un figlio per darlo ad altri, sia dietro l’esborso di denaro che gratis. In ogni caso – e qui veniamo al secondo motivo di censura morale - sia la madre sia il figlio sono reificati: la prima perché produce un prodotto da vendere o da donare, il secondo perché è un prodotto acquistato o regalato. Lo scambio di denaro può solo incidere sulla maggiore o minore gravità dell’atto, ma non può incidere sulla qualità dell’atto che in entrambi i casi – alienazione onerosa o gratuita – rimane della stessa specie (alienazione di un bambino) e dunque illecita, perché viola la dignità del bambino e della gestante, nonché della coppia richiedente che si trasforma in una coppia di meri committenti, cioè in soggetti aventi natura commerciale.
E in merito al diritto di ripensamento, che dire? La madre non ha la facoltà di ripensamento, ma – una volta che malauguratamente avesse accettato di affittare il proprio utero - ha il dovere morale di far marcia indietro. Oltre a questo, il diritto di recesso si applica alla merce acquistata, non certo ai bambini. La locatio ventris si risolve sempre in una vacatio legis (moralis).