Ecco i piani segreti della Turchia in Siria e Iraq
La strategia militare della Turchia nella guerra all’Isis conferma la volontà di Ankara di restare protagonista in prima linea nel conflitto in Iraq e Siria perseguendo alucni. prioritari obiettivi nazionali. Primo fra tutti, impedire la nascita di uno Stato curdo alimentando i contrasti tra le componenti rivali.
Definire “interventista” la politica turca nei confronti del conflitto in Iraq e Siria è probabilmente riduttivo specie dopo l’abbattimento del cacciabombardiere russo lungo i confini siriani, i piani per occupare una fascia di territorio siriano alla frontiera (la cosiddetta “zona cuscinetto”) e dopo che un migliaio di soldati turchi con carri armati e artiglieria sono penetrati in Iraq settentrionale scendendo attraverso il Kurdistan fino a pochi chilometri da Mosul.
Ankara parla di appena 130 istruttori militari ma secondo fonti statunitensi i soldati turchi sarebbero 1.200, il cui ingresso in Iraq sarebbe stato concordato da Ankara con le autorità curde di Erbil, ma non con Baghdad. Il governo iracheno ha chiesto «il ritiro immediato» dei militari e ha condannato quella che ha definito «una grave violazione della sovranità irachena» che il premier Haider al-Abadi aveva ribadito il 3 dicembre ammonendo Washington per i piani di schierare in Iraq una cinquantina di uomini delle forze speciali con compiti di combattimento.
In un Iraq sempre più diffidente verso Stati Uniti e la Coalizione arabo-occidentale e sempre più alleato di Iran e Russia, l’intervento turco sembra voler evidenziare la sovranità limitata di Baghdad, ma punta anche a ribadire che se Ankara non riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi strategici nella crisi in atto in Iraq e Siria sarà comunque in grado di condurre azioni di disturbo facendo leva sui contrasti tra i curdi e sulle comunità turcomanne in Siria e Iraq. Il reggimento turco è stato infatti schierato nella base delle milizie turcomanne di AL-Zalkan, nell’area di Bashika, a nord-est di Mosul, il capoluogo della provincia di Ninive con un milione di abitanti che è da 16 mesi la roccaforte dello Stato Islamico in Iraq.
L’operazione militare conferma la volontà turca di restare protagonista in prima linea nel conflitto in Iraq e Siria perseguendo tre prioritari obiettivi nazionali. Il primo è impedire la nascita di uno Stato curdo alimentando i contrasti tra le diverse componenti di quell’etnia, tradizionalmente rivali. L’appoggio dichiarato di Ankara ai curdi d’Iraq incrina il fronte curdo divenuto unitario con l’epopea di Kobane e la minaccia del Califfato. Oggi invece Ankara sostiene in armi i curdi di Massud Barzani mentre dal 22 luglio, giorno in cui cominciò l’offensiva ufficialmente rivolta a colpire l’Isis, bombarda i curdi del PKK e anche i loro alleati siriani dell’Unione Democratica Curda, cioè i difensori di Kobane contro il Califfato.
Al tempo stesso le truppe turche sostengono anche in Iraq (come già fanno in Siria) le milizie turcomanne che combattono le forze di Assad come lo Stato Islamico e che potrebbero fare comodo ad Ankara per estendere la sua influenza sull’area petrolifera del triangolo Erbil - Mosul–Kirkuk dove vive la minoranza irachena di origine turca. Difficile comprendere quanto la strategia turca sia concordata o condivisa con Washington. Di certo l’intervento militare turco in Iraq ha fatto imbestialire il governo iracheno il cui premier, Haidar al-Abadi, aveva appena inveito contro l’invio di forze speciali americane rifiutando di accettare truppe straniere sul suo territorio.
Infine, non si può escludere che l’obiettivo vero sia minare la residua credibilità dello Stato iracheno per frazionarlo in entità scita, sunnita e curda. Una deriva che Ankara ha interesse a pilotare e monitorare per evitare alzate di testa curde. Inoltre il ruolo turco, questa colta in accordo con le monarchie del golfo, potrebbe mirare a impedire che Mosul, storica roccaforte sunnita, venga occupata dalle milizie scite Badr filo iraniane. In tal senso la penetrazione turca in Iraq (e potenzialmente nel nord della Siria) potrebbe rientrare in un piano più ampio coordinato tra Ankara e le monarchie del Golfo per smembrare l’Iraq e occupare la Siria la cui esistenza è stata fatta balenare nei giorni scorsi viceministro degli Esteri emiratino, Anwar Qarqash, che all’agenzia di stampa nazionale Wam ha detto .che gli Emirati Arabi Uniti sono pronti a una missione di terra in Siria e a un intervento diretto nell’ambito di una coalizione internazionale, preferibilmente guidata da altri paesi arabi.
«Il nostro Paese è pronto a partecipare ad un intervento di terra contro i terroristi», ha affermato il membro del governo di Abu Dhabi, precisando che «il modello potrebbe essere l’alleanza araba guidata dall’Arabia Saudita che sta intervenendo in Yemen». Cioè la guerra contro gli sciti di etnia Houthi. Un progetto che, come è facile intuire, è difficile credere prenderà di mira«i terroristi dell’Isis», ma più facilmente le truppe di Bashar Assad e i loro alleati russi e iraniani. L’ipotesi che eserciti arabi penetrino in Siria da sud, dal confine giordano, e quello turco avanzi da nord e in Iraq settentrionale non è più incredibile di quanto non fosse fino a una settimana or sono la presenza di un reggimento corazzato turco di fronte a Mosul.
Non a caso ieri l’esercito siriano ha lamentato l’uccisione di 4 soldati e il ferimento al altri 13 ad opera di un attacco aereo della Coalizione nella base militare di Saeqa, presso la città di Ayyash, a circa due chilometri da un'area controllata dai miliziani jihadisti. Damasco ha protestato all’Onu e la Coalizione ha negato il coinvolgimento di propri velivoli nell’azione ma la notizia è stata confermata anche dall’Osservatorio per i diritti umani in Siria (Ondus), organizzazione con base a Londra vicina ai ribelli anti-Assad.