Ecco chi ancora non si rassegna a Netanyahu
É passata una settimana dalle elezioni israeliane e seguendo la grande stampa internazionale stupisce che analisti ed esperti non smettano di interrogarsi sulle ragioni della vittoria alla grande di Benjamin Netanyahu contro tutti i sondaggi. Nonostante una campagna mediatica fortemente ostile con toni denigratori anche nei confronti di sua moglie Sarah. Una campagna che all'estero mirava a delegittimare Israele.
É passata una settimana dalle elezioni israeliane e seguendo la grande stampa internazionale stupisce che analisti ed esperti non smettano di interrogarsi sulle ragioni della vittoria alla grande di Benjamin Netanyahu contro tutti i sondaggi. Specie quelli della vigilia che lo davano perdente, e poi contro gli exit polls che lo stabilivano appaiato alla “coppia” di rivali, il laburista Isaac Herzog e la centrista Tzipi Livini, fondatori e leader della “Unione sionista”. Segno che la sua vittoria, da molti media non desiderata, non è stata nemmeno “digerita”. E di converso, segno che a uscire sconfitta dalle elezioni è stata la campagna mediatica a lui ostile , senz’altro la più aspra nei 70 anni della storia politica di Israele, che non si è arrestata nemmeno “a bocce ferme”, cioè a urne chiuse.
Una campagna mediatica che si è accompagnata, ha sotteso, sovente si è sovrapposta, talvolta si è confusa con quella della delegittimazione della sua figura e della sua politica spingendosi fino alla delegittimazione di Israele, proiettandosi sulla natura e le caratteristiche della sua democrazia, giungendo persino a contestare l’esistenza della nazione ebraica. Scontato quindi prevedere che questa campagna sia destinata a proseguire per tutta la durata della nuova legislatura. L’obiettivo è sempre lo stesso, sintetizzato dallo slogan elettorale, “Mandarlo a casa comunque”. Adesso viene evocata l’ovvia certezza che Bibi non possa durare in perpetuo, che possa cadere in un errore dalle conseguenze politiche invalidanti o vivere una situazione che interrompa la sua lunga permanenza al vertice della vita politica nazionale, ormai quattro mandati di premier, che regge, anzi supera, il confronto con quella del mitico fondatore dello Stato, David Ben Gurion.
Netanyahu aveva già avvertito in occasione delle elezioni del dicembre 2013 (dalle quali ne era uscito vincente) segnali di un’acrimoniosa insofferenza; in queste ultime vi è stata nei media un’ulteriore caduta di “stile” perché ha assunto toni denigratori nei confronti di sua moglie Sarah, e critiche per nulla larvate sono state espresse nientemeno che dal Controllore dello Stato Joseph Shapira. L’attività di questa figura istituzionale, l’equivalente del nostro presidente della Corte dei Conti, è attentamente seguita dalla pubblica opinione; in particolare il suo rapporto annuale è un evento molto atteso, i giornali lo pubblicano per esteso impegnando alcune pagine. Stavolta però, la denuncia di uno scandalo inverosimile, definito come il “bottiglia-gate”, con una serie di critiche alla moglie di Netanyahu ( presentata come una donna sregolata con il denaro pubblico e invece parsimoniosa con il proprio, che si arricchisce a spese dei contribuenti con la raccolta di bottiglie vuote, intascandosi il deposito del reso) è apparsa molto debole, al limite dell’inconsistenza. Come è apparsa pretestuosa – ma ha contribuito ancor più a far crescere sui media la campagna ostile ai Netanyahu – un’altra indagine del Controllore sull’ impiego del fondi pubblici destinati alla manutenzione della residenza del Primo Ministro.
«Le spese domestiche», ha denunciato, «non hanno soddisfatto nemmeno uno dei principi fondamentali di proporzionalità, ragionevolezza, economia ed efficienza». Eccessiva è stata giudicata «la spesa per il catering ed i pasti da asporto, nonché per la pulizia della residenza del Primo Ministro». Il pettegolezzo ha dilagato. Tanto da indurre una nota scrittrice, Naomi Ragen, a indagare sulla «devastante» immagine pubblica di Sarah Nethanyahu, a decidere di incontrare l’«altera spendacciona» (rea fra l’altro di aver abusato del servizio di un domestico) e a chiederle cosa ci fosse di vero dietro a tutte queste storie «scandalose e piccine, che anche se smontate svariate volte, continuavano a tornare sotto forma diversa». Sara, psicologa per professione, non ha cercato vie traverse e le ha detto schiettamente che «dietro a tutto questo» c’è un uomo, Noni (Arnon) Mozes. «Mozes, che alcuni considerano l'uomo più potente in Israele, è anche l'editore del quotidiano Yediot Aharonot, un giornale schierato a favore della sinistra, degli accordi di Oslo, del disimpegno da Gaza del 2005 e del Partito Laburista». E infine sostenitore del controverso disegno di legge contro il giornale Israel Hayom, (ne è stata chiesta la fine della distribuzione gratuita solo perché ad alta tiratura) fondato dal miliardario americano Sheldon Adelson a sostegno del Primo ministro e del suo partito Likud. In un post su Facebook Benjamin Netanyahu ha accusato Mozes di essere «il responsabile del fango che viene gettato contro di me e mia moglie».
Su un altro e più “alto” piano si è sviluppata la campagna ostile dell’autorevole quotidiano di opinione Haaretz schierato apertamente a sostegno della “Unione sionista” di Isaac Herzog e Tzipi Livni. Non si finirebbe di spigolare tra le righe degli editoriali. Possono bastare due citazioni: «Gli elettori di Bibi sono troppo eccitati e hanno paura. Non vogliono vivere in una nazione democratica e liberale» (Ravit Hecht), «Non c’è speranza. La popolazione israeliana dev’essere sostituita, non è degna di esistere» (Gideon Levi). Fanno il paio con lo scherno degli ebrei religiosi in un comizio di Yair Garbor: «Sono analfabeti che baciano amuleti», ha detto per ridicolizzare i superstiziosi che portano sulle labbra la mano che ha appena sfiorato il rotolo della Torah o le scatoline, contenenti citazioni bibliche e preghiere , apposte agli stipiti delle porte di casa. Queste le due anime di Israele. Purtroppo la liberal-progressista e laica non riesce a incontrarsi, e tanto meno a intendersi, con quella conservatrice e popolare, verso la quale ha un animoso disprezzo; e mentre danneggia la sinistra autenticamente sionista, da sempre presente nella realtà nazionale, condivide i medesimi sentimenti della sinistra ebraica in Europa e negli Stati Uniti.
Da questo intreccio, al limite del paradosso, scaturiscono due diversi modi di porsi dinanzi alle grandi problematiche di politica regionale e internazionale. Ne discende la condivisione o il rifiuto vuoi delle posizioni filo-palestinesi espresse da partiti di sinistra europei, vuoi delle iniziative diplomatiche per il processo di pace o per un controllo dell’ industria nucleare iraniana maturate in seno all’Unione Europea e all’amministrazione Obama o espresse dal Quartetto per il Medio Oriente. E ne discende pure l’esistenza di lobbies politiche, di gruppi di interesse più nascosti che palesi, di giochi e strategie di rilevanza regionale e di proiezione sovente mondiale. Non ha sorpreso la rivelazione di Netanyahu che «a Washington ci sono Ong che hanno finanziato i miei avversari politici; qualcuna ha cercato di rovesciarmi ma non c’è riuscita».
Le campagne mediatiche esprimono queste realtà . Nell’ultima battaglia elettorale non sono però riuscite a nascondere o minimizzare i pericoli per Israele dell’arma nucleare iraniana e della nascita di uno Stato palestinese nel momento in cui il Califfato islamico si espande prepotentemente nella regione, minacciando non solo i suoi confini, ma la sua stessa esistenza. Netanyahu ha avuto buon gioco nel rappresentare i grossi rischi per la sicurezza di Israele sfidando il presidente Obama addirittura dalla prestigiosa aula del Congresso degli Stati Uniti (era la terza volta che veniva invitato a parlare dalla sua tribuna, un onore riservato finora solo a Winston Churchill).
I risultati di vedere affluire alle urne il 71,8 dei votanti – una percentuale che lava i tanti fanghi dell’apartheid versati sulla nazione, unica democrazia del Medio Oriente dove per cristiani musulmani ed ebrei sono stabiliti pari diritti – e di avere il Likud conquistato un quarto dei seggi della Knesset in una competizione disciplinata dal proporzionale puro, legittimano la vittoria di Netanyahu anche se non gli assicurano tempi tranquilli nell’affrontare i problemi in sospeso, primo fra tutti quello con gli arabi- palestinesi, in ballo dal 1947, e le frizioni con Obama in questi ultimi due anni di permanenza alla Casa Bianca.