E le Acli si piegano al gender
8 marzo, festa della donna. Per tutti, ma non per le Acli che oggi hanno deciso di festeggiare la “cultura di genere”. Un'imperdonabile svista o una presa di posizione contro il Magistero della Chiesa Cattolica?
Le ACLI oggi hanno deciso di festeggiare non la donna, ma la “cultura di genere”. Il Coordinamento Donne ACLI ha pubblicato un manifesto (“8 Marzo dedicato alla Cultura di genere”) in occasione della festa della donna tutto teso a incensare le differenze di genere pensando così di incensare il ruolo e il valore della donna, ma ottenendo l’effetto contrario.
L’errore principale contenuto in questo manifesto è usare l’espressione “cultura di genere”, assai ripetuta in tutto lo scritto. Com'è noto questa espressione è stata coniata nei circoli culturali e politici di matrice omosessualista ed esprime in buona sostanza il seguente concetto: tu puoi essere maschio o femmina, ma non per questo devi sentirti maschio e femmina. Una cosa è il dato genetico-biologico – il sesso maschile o femminile – un’altra la percezione psicologica di appartenere al mondo maschile o femminile, oppure a nessuno dei due, e un’altra ancora la scelta del proprio orientamento sessuale. E così un uomo può sentirsi lecitamente attratto verso un altro uomo e una donna verso un’altra donna, oppure una persona può decidere di avere una posizione di neutralità in fatto di orientamento sessuale.
Il dato di realtà biologica quindi per l’ideologia di gender non deve per forza fungere da stella polare e vincolo per le proprie scelte affettive e sessuali. Si comprenderà bene allora che l’espressione “cultura di genere” stona alquanto in un documento di un’associazione che nel suo stesso nome richiama il cristianesimo (Associazioni cristiane lavoratori italiani), che si rifà alla Dottrina sociale della Chiesa e che insieme ad altre sigle è stata protagonista di Todi uno e Todi due.
Le parole sono tutto, perché se cambi un termine per indicare un dato di realtà cambi la percezione della realtà e finisci per far credere alla lunga che addirittura quella realtà non esista più o ne esista un’altra che è il parto anomalo della fantasia di qualcuno.
E così parlare di “genere” – termine che ha un suo uso proprio solo in grammatica – persegue l’obiettivo non solo di legittimare qualsiasi scelta sessuale, ma anche di tentare di eliminare nelle menti di molti un dato di realtà, cioè che l’umanità è composta di maschi e femmine, al fine di far credere che non esiste più il sesso, ma il genere.
Ben inteso le ACLI nel loro scritto non appoggiano esplicitamente tali tesi (seppur la frase “i mille colori delle differenze culturali e quelli delle differenze di genere” pare un richiamo non troppo velato alla bandiera arcobaleno del movimento gay e così l’immagine del manifesto che ritrae un profilo di donna con la chioma variopinta), ma facendo propria questa espressione – così a la page e così progressista - fanno entrare nelle mura cattoliche un Cavallo di Troia che contiene al suo interno i nemici dell’ideologia gender.
Oltre a questo il rimando alla cultura di genere è involontariamente un autogol per lo stesso Coordinamento Donne che si batte per la parità dei sessi, per il riconoscimento della peculiarità della figura femminile e contro ogni discriminazione. Infatti, come prima appuntato, la cultura di gender considera un nemico sia l’esistenza del sesso maschile e femminile, sia il ruolo sociale dell’uomo e della donna.
Le differenze specifiche – che nel documento delle ACLI vengono valorizzate – sono la kriptonite per i sostenitori della cultura di genere la quale vuole in ultima istanza un annullamento delle differenze stabilite da madre natura per arrivare alla liquidità di ruoli sociali, orientamenti sessuali e strutture psicologiche indefinite.
L’essere donna quindi per la cultura di genere è un dato di verità antropologica da superare perché percepito come limite alla propria libertà di definirsi come persone così come più aggrada. Si tratta in ultima istanza dell’ennesima variazione del concetto di utopia: non riconosco la realtà per quello che è e ne rispetto le regole insite in essa, ma invento io un nuovo mondo con nuove regole. E in questo nuovo mondo non c’è posto non solo per l’uomo in quanto maschio, ma nemmeno per la donna in quanto femmina. Quindi per paradosso, inneggiando al “gender”, dalla festa della donna si passa a celebrare un “genere” di festa non proprio femminile.
Tralasciamo poi alcune considerazioni sul contenuto del manifesto che non attengono specificatamente alla questione della cultura gender e che rimandano a un’interpretazione del valore della donna di chiara matrice progressista, con rimandi non troppo velati al materialismo storico-dialettico declinato come lotta sociale e a un certo femminismo radicale.
Poniamoci invece la seguente domanda: usare l’espressione “cultura di genere” è una svista, un mero omaggio alla linguistica contemporanea oppure c’è di più? Difficile credere che coloro che hanno redatto il manifesto ignorino la posizione del Magistero su questo tema e, anche quando fosse così, una tale ignoranza sarebbe comunque colpevole e non scusabile. Infatti solo meno di tre mesi fa Benedetto XVI, in occasione degli auguri natalizi alla curia romana, così si espresse: “'Donna non si nasce, lo si diventa. In queste parole è dato il fondamento di ciò che oggi, sotto il lemma ‘gender’, viene presentato come nuova filosofia della sessualità. Il sesso, secondo tale filosofia, non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente […]. La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente”.
Colui che si presenta con credenziali cattoliche non può che allinearsi alla posizione del Magistero e mettere al bando anche solo meri rimandi terminologici a filosofie inconciliabili con la sana dottrina. Non varrebbe poi la scusa che “gender” è polisemantico, cioè termine ambiguo che indica diversi significati. Il Papa è stato esplicito sul punto, e poi chi sarebbe così temerario da usare la parola “nazismo” per indicare il proprio amore per la sua nazione? Il termine “gender” dunque non può essere presente nel vocabolario di un cattolico.
In conclusione poi ci sorgono questi interrogativi: perché le ACLI non hanno giocato sul sicuro e in occasione della festa della donna – nata come è noto da un falso storico - non si è messo a tema la figura femminile di Maria? Perché in questo clima di inverno demografico non si è deciso di parlare del valore della maternità? Del lavoro di “mamma” o del tema dell’integrazione tra lavoro e famiglia e delle priorità che una donna madre e lavoratrice deve avere? Perchè – esattamente al contrario di quanto scritto – non si è lasciato perdere la vulgata corrente sul tema delle differenze di genere e non si è scelto di mettere in rilievo la ricchezza dell’essere donna secondo il piano di Dio? Forse sarebbe suonato tutto troppo cattolico?