E il giudice ora si inventa la famiglia bestiale
In una causa di risarcimento per un intervento sbagliato di un veterinario, il Tribunale di Genova ha sentenziato che i cani fanno parte di “un progetto di vita familiare”. Si aprono scenari davvero interessanti...
Affermare che il cane è il miglior amico dell’uomo è dire poco, dopo che il Tribunale di Genova ha sentenziato che i cani fanno parte di “un progetto di vita familiare”. Fido non è più solo un amico, bensì è diventato un figlio, un padre e un marito a quattro zampe (ben più fedele dei colleghi bipedi).
Ma ripercorriamo la vicenda che ha portato a questa sentenza bestiale. Yuma, una bastardina presa dal canile, zoppica. Paola, la padrona, la porta dal veterinario che la opera all’anca. Ma dopo parecchie settimane il cane zoppica ancora, anzi peggio di prima. Yuma viene portata da alcuni specialisti di Cremona e Pisa e si accerta che la precedente operazione ha leso il nervo sciatico. La cagna deve essere operata nuovamente e non tornerà mai più come prima. La signora Paola decide di far causa al veterinario che aveva operato in malo modo la sua Yuma chiedendo il risarcimento danni per i costi della seconda operazione e i danni morali. Questi ultimi sono dovuti alla padrona a motivo della sofferenza di vedere Yuma in quelle condizioni e per il fatto che la bestiola non potrà più correre ed essere scattante come prima.
È su questo ultimo punto – il risarcimento dei danni morali – che nasce un contraddittorio tra il legale della signora Paola e quello del veterinario. Quest’ultimo asserisce che il quantum dovuto deve essere calcolato tenendo conto che un cane per il diritto è bene mobile, cioè una cosa. Dunque il risarcimento deve essere proporzionato al valore commerciale del cane, che non è di razza. I difensori del duo “cane e padrone” invece sostengono che il valore da risarcire trascende quello commerciale e deve essere commisurato al grado di importanza affettiva assegnato dalla stessa signora Paola.
Il giudice accoglie quest’ultima versione. E così il vero valore – da liquidarsi in 4.500 euro più il risarcimento per le spese della seconda operazione – è quello affettivo. Il giudice Lorenzo Fabris si spinge ancor più in là affermando che, dal momento che la padrona ha speso un sacco di soldi per questa cagnetta, vuole dire che ci tiene moltissimo e che intende instaurare con lei "una relazione durevole negli anni" e farla entrare nel suo "progetto di vita familiare". Quindi poco importa che il cane sia un bastardino e non un cane di razza, i parametri per il risarcimento sono altri: “Proprio perché il cane non è di razza – si legge nella sentenza n. 1004/2016 del 13 gennaio scorso - le aspettative della padrona sono maggiormente amplificate a far sì che sia inserito nel contesto familiare a tutti gli effetti, ed è indubbio che nel comune sentire il valore di un animale d’affezione inserito in una famiglia è elevato e cresce nel tempo”. E dunque l’ansia e il patimento nate dalla constatazione che questo progetto di vita a due è ormai fortemente compresso dalle limitate capacità motorie della bestiola devono essere risarcite in modo congruo.
Il nocciolo di questa vicenda giudiziaria non sta nel decidere quale sia il parametro idoneo per calcolare la liquidazione del danno morale in casi come questi (valore affettivo o materiale?), bensì nel fatto che un giudice ha qualificato un animale come componente del nucleo familiare.
Le espressioni “progetto di vita familiare” e soggetto “inserito in una famiglia” sono esattamente le stesse che hanno usato di recente alcuni giudici italiani per legittimare le adozioni da parte del partner omosessuale del figlio dell’altro partner. I due erano famiglia proprio perché, sebbene non sposati, avevano un progetto di vita a due, vivevano una relazione affettiva stabile e duratura, come quella tra Paola e Yuma. Donna e animale configurano quindi un caso particolare di famiglia, in cui cane e padrona sono due familiari. L’una la madre e l’altra la figlia? O addirittura dovremmo pensare che Paola e Yuma sono “sposate”? Sarebbe il primo caso di “matrimonio” omosessuale interspecie.
La fraseologia usata dal giudice Fabris è perciò la medesima adoperata dai suoi colleghi per inventarsi la “famiglia” omosessuale. Se c’è un progetto e c’è dell’affetto allora è famiglia. Quindi nulla toglie che – e la sentenza genovese ne è la prova – questi due elementi possono valere non solo per gli umani, al di là della loro identità sessuale, ma anche per le bestie (ed in futuro anche per le cose: c’è chi ama tantissimo la propria auto o il proprio smartphone). La questione delle unioni civili è ormai roba vecchia, superata dalle famiglie bestiali e dai matrimoni interspecie.
Se dunque Paola “ama” Yuma e da questa è ricambiata (vallo a provare) e la “relazione” canina perdura da anni e c’è la volontà da parte di entrambi (vallo a provare anche questo) di stare insieme in futuro, perché vietare loro di definirsi famiglia? Ma se Yuma fa parte della famiglia si aprono due opzioni. O i componenti della famiglia possono essere sia persone che animali oppure possono essere solo persone e gli animali devono essere intesi come persone. Nel primo caso Fido, Lilly e relativa cucciolata devono essere qualificati giuridicamente come famiglia. Nel secondo caso Fido – prendendo a prestito uno slogan usato per una campagna a tutela degli embrioni umani – dovrebbe venire considerato Uno di noi.
In entrambi i casi le conseguenze sarebbero le medesime: Yuma – nonchè tutti i cani, gatti e pesci rossi inseriti in ambiti familiari – è come se fosse una figlia, una madre o una moglie. Quindi è soggetto di diritto che reclama la tutela almeno di alcuni diritti. Da qui la nomina di un tutore affinché a Yuma possa venire assicurata la pensione di reversibilità, la legittima all’apertura del testamento della padrona, il cognome di quest’ultima, nonché il diritto a divorziare da Paola se la cuccia è troppo stretta e quindi il diritto a vedersi passare le crocchette, il diritto a sposarsi (il problema che fa riferimento alla necessità che il quadrupede debba esprimere consenso valido potrebbe essere superato verificando se quest’ultimo scodinzola al momento delle nozze). Va da sé che se Yuma è membro della famiglia ha pari diritti di Paola e perciò niente più collare – lederebbe la sua libertà: mica è una cosa ci ha detto il giudice – e che Paola non si faccia più chiamare “padrona” perché lesivo e discriminatorio nei confronti della Signorina Yuma. La schiavitù è finita da un pezzo ed è tempo ormai di parlare di zoofobia.
Fantasie? Iperboli giuridiche? Per niente. Il governo Zapatero qualche anno fa provò a far passare un progetto di legge che voleva riconoscere soggettività giuridica ai primati. Nelle università da tempo si discute di diritti degli animali non umani (per dire che se l’uomo è persona e animale, l’animale è persona anche se non uomo). Il deputato M5S Carlo Sibilia propose poi il matrimonio interspecie e vi sono siti che già pubblicizzano questa idea, seppur priva di effetti giuridici (leggi qui: http://gwnblog.lanuovabq.it/dalle-nozze-gay-a-quelle-bestiali/).
E dire che a Yuma importava solo di non sentire più dolore alla zampa.