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IN VIAGGIO CON ENEA/ 13

E Didone confessò: «Conosco i segni dell’antica fiamma»

Colpita dall’eroismo di Enea, Didone si confida con la sorella Anna, svelandole la passione sorta nel suo cuore. I versi Agnosco veteris vestigia flammae verranno poi ripresi da Dante come omaggio al maestro Virgilio. Che nell’Eneide attacca la fama, come farà duemila anni dopo anche Pirandello.

Cultura 27_12_2021

Finito il racconto di Enea, ora la narrazione torna a Virgilio che aggiorna il lettore sull’amore sorto nel cuore di Didone, colpita dal forte eroismo e dall’onore della stirpe di quel prode. Ripensando alle gesta e alle parole, la regina non riesce a prendere sonno. All’alba, si confida con la sorella Anna rivelando come sia stata colpita dall’ospite «di così forte petto/ e di armi». Se non fosse per il giuramento fatto a Sicheo di non convolare a seconde nozze, la regina avrebbe senz’altro ceduto «a quest’unica colpa»:

Anna, lo confesserò, dopo i destini del povero marito
Sicheo ed i penati dispersi dalla strage del fratello
solo costui piegò i sentimenti e scosse il cuore
che vacilla. Conosco i segni dell’antica fiamma.

La proposizione latina «Agnosco veteris vestigia flammae» si traduce «conosco i segni dell’antica fiamma». Sono i versi con cui Dante saluta con un ultimo omaggio la guida Virgilio che ormai l’ha lasciato alla compagnia di Beatrice nel secondo regno del Purgatorio. Giunto nell’Eden, quando Dante comprende di trovarsi di fronte alla donna amata, si volta per guardare in volto il maestro Virgilio e dirgli:

[…] Men che dramma

di sangue m’è rimaso che non tremi:

conosco i segni de l’antica fiamma.

Questo è l’estremo omaggio che il poeta porge al maestro avvalendosi dei versi che Virgilio aveva utilizzato nell’Eneide per descrivere il nuovo innamoramento di Didone, che, perso Sicheo, dopo tanti anni si innamora di nuovo di Enea. A questo punto, Dante viator fa l’amara scoperta:

[…] Virgilio n’avea lasciati scemi

di sé, Virgilio dolcissimo patre,

Virgilio a cui per mia salute die’mi.

Tre volte compare il nome «Virgilio», un numero particolare, dal valore sacrale. Il maestro se n’è andato senza un abbraccio, disdegnando i lunghi addii, senza profusione di lacrime. Lo ha lasciato in compagnia della nuova maestra che lo accompagnerà nel cammino verso l’alto e verso Dio. Le lacrime sgorgano sulle guance di Dante, nonostante il poeta sia giunto nel luogo della felicità terrena, l’Eden.

Anche Didone con le lacrime agli occhi continua la sua confidenza con la sorella Anna: nonostante l’amore abbia preso possesso di nuovo del suo cuore, preferirebbe morire per mano del Sommo Giove che tradire il suo pudore muliebre e la fedeltà al marito. Anna, nome che in ebraico significa «grazia», «misericordia», istiga Didone a godersi l’amore. Nei Fasti di Ovidio anche Anna si è innamorata dell’eroe troiano, si trasferisce nel Lazio, ma poi si tuffa in un torrente trasformandosi in una ninfa per evitare la gelosia della seconda moglie di Enea, Lavinia. Nell’Eneide non compare alcuna traccia di questo amore, anche se è evidente che tra Enea e Anna intercorra una confidenza particolare. Anna ricorda alla sorella i re confinanti e bellicosi, la stirpe regale che genererà dall’unione con quell’eroe e le gesta mirabili che si accinge a compiere.

Anna accende così il cuore della sorella. Le due preparano sacrifici per aver propizi gli dei. Didone mostra la città all’eroe, le mura, le ricchezze. Ormai il suo cuore è preso dall’amore per Enea. La regina degli dei, Giunone, ostile ad Enea, propone un accordo a Venere, madre dell’eroe, perché tra i Cartaginesi e i Troiani possa essere stipulato un patto attraverso il matrimonio. Non sfugge a Venere che la vera intenzione di Giunone è allontanare Enea dall’Italia e che le sue parole sono improntate a ipocrisia. Perciò risponde che non sa se il fato approverà nozze che uniscano Troiani e Cartaginesi. Giunone espone a Venere il piano: il giorno seguente Didone ed Enea andranno a caccia insieme; Giunone provocherà allora una pioggia mista a grandine; i due si nasconderanno nella stessa grotta e si ameranno. Come programmato da Giunone, durante la caccia inizia il temporale e «alla stessa spelonca giungono Didone ed il capo/ troiano».

Quel giorno fu il primo della morte e per primo fu
la causa dei mali; infatti non è distolta da decoro
o fama Didone, né medita un amore furtivo:
lo chiama connubio, con tal nome nascose la colpa.


L’unione di Enea e Didone è trattata come un vero atto di nozze. La fama si diffonde per i regni dell’Africa. La fama è «il più fulmineo di tutti i mali», «vive del suo movimento, e andando guadagna forza». All’inizio è timida, cammina con i piedi in terra e nasconde il volto in cielo, possiede tanti occhi, tante lingue, tante orecchie. La fama non dorme la notte; di giorno, si nasconde, sta di guardia e diffonde appena può le sue menzogne e i suoi veleni. La personificazione della Fama all’interno del poema virgiliano è sempre icastica. Imperterrita, lei persegue la sua opera di distruzione e di devastazione, modifica le voci, deturpa le immagini e gli onori. «La Madre Terra, irritata dall’ira degli dei,/ la generò, come raccontano, […]/ veloce a piedi e con ali infaticabili». Fin dall’inizio la fama ha riempito i popoli di chiacchere decantando azioni fatte e non fatte. «La sporca dea» diffonde la notizia che Didone si sia unita in sposa con Enea e che ora i due trascorrano nell’ozio l’inverno, «caldi nel lusso/ immemori dei regni e rapiti dalla folla passione». La fama giunge fino al re Iarba, generando in lui una folle ira e sdegno rabbioso.

A distanza di duemila anni, anche Pirandello, come Virgilio nell’Eneide, attacca la fama e sostiene che sarebbe meglio non essere oggetto delle sue attenzioni, mentre la maggior parte delle persone aspirano ad ottenerla come fosse il bene assoluto. Pirandello, che la ottenne, arriva a sostenere con tono perentorio:

A nome della mia opera tutta intiera, […] mi ribello contro la mia fama e contro il pirandellismo e arrivo fino a dichiarare di essere pronto a rinunciare al mio nome, pur di riconquistare la libertà della mia immaginazione di scrittore.

La fama, infatti, nasconde la verità, la tinge d’altro colore fino a modificarne totalmente l’immagine: «Forse non esiste scrittore più sconosciuto di uno scrittore celebre!». Anche il Premio Nobel siciliano mostra come la fama ad un certo punto prenda il volo:

[La fama] nasce il giorno in cui, non si sa come né perché, il nome di uno scrittore si stacca dalle sue opere, mette le ali e spicca il volo. Il nome!… Le opere sono molto più serie: non volano, ma camminano a piedi, è per conto loro, con il loro peso e il loro valore, a passi lenti.

Così, mentre il nome di Pirandello è a Parigi e ha girato tutto il mondo, le sue opere letterarie «continuano a piedi la loro strada, a passi pesanti, e sono naturalmente rimaste indietro» (articolo del 15 dicembre 1931). Nessuno ha così desiderio di conoscere le opere davvero, avendone già avuto notizia per fama.