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FILIPPINE

Duterte, ombre cinesi sull'uomo duro di Davao

Si atteggia a dittatore, dichiara di voler ammazzare 100mila criminali, insulta il Papa, insulta le donne... viene eletto presidente delle Filippine. Nonostante il drammatico appello della Chiesa a non votarlo. E' diffuso anche il sospetto che dietro la sua campagna elettorale vi sia la lunga mano della Cina.

Esteri 11_05_2016
Rodrigo Duterte

Rodrigo Duterte è stato eletto presidente delle Filippine e promette metodi autoritari, anzi “dittatoriali”, per combattere il crimine. I suoi discorsi, durante tutta la campagna elettorale, sono più che espliciti e al confronto farebbero impallidire i più radicali leader populisti occidentali. Dietro la sua elezioni si celano anche poco chiari interessi cinesi, che potrebbero ribaltare gli equilibri politici nell’unica nazione cattolica del Sudest asiatico.

L’ex sindaco di Davao ha ottenuto il 39% dei voti, contro il 23% del suo principale avversario, l’ex ministro degli Interni Mar Roxas e il 21% di Grace Poe, imprenditrice filantropa. Città nel Sud dell’isola di Mindanao, Davao era piagata dal terrorismo del Partito comunista clandestino delle Filippine e da un altissimo tasso di criminalità. Contro i comunisti, i cittadini hanno avuto la possibilità di armarsi e di difendersi in proprio. Non solo sono stati combattuti i brigatisti rossi filippini della Nuova Armata Popolare, ma gli squadroni di vigilantes così formatisi hanno creato loro stessi gravi problemi di ordine pubblico, eliminando anche i loro rivali. Duterte ha ripristinato l'ordine, in 22 anni quasi continui di sue amministrazioni, ma il prezzo umano è altissimo: sono 1400 le esecuzioni extragiudiziali contate nella città meridionale. E’ per questi motivi, soprattutto, che si è creato una fama di uomo duro, soprannominato “Duterte Harry”, dal titolo del noto film della serie dell’ispettore Callaghan, con Clint Eastwood. Nella sua campagna elettorale ha tenuto fede alla costruzione del suo personaggio, con frasi shock come: “Dimenticatevi i diritti umani. Se mi insedierò al palazzo presidenziale, farò quel che ho fatto da sindaco. Voi spacciatori, ladri e fannulloni, fareste meglio a scappare. Perché io vi ucciderò. Vi getterò tutti nella baia di Manila, ingrassando i pesci con i vostri cadaveri!”. Ha promesso di uccidere almeno 100mila criminali, di risolvere il problema della delinquenza nei suoi primi sei mesi di mandato. Al momento della sua vittoria, nella prima conferenza stampa, ha ribadito il concetto: “Sarò un dittatore contro tutti gli uomini cattivi e malvagi. Lo sarò anche a costo della mia posizione o della mia vita. Non mi fermerò. Questo è un impegno solenne”. E anche a proposito dei suoi stessi figli: “Sono pronto ad ammazzarli, se dovessi scoprire che si drogano”.

Un grande paese cattolico ha eletto un presidente che non ha una biografia specchiata. Sposato e divorziato due volte, si autodefinisce un “donnaiolo”, a cospetto di una riunione di uomini d’affari ha fatto uno spontaneo spot al suo uso del Viagra. Ha trovato modo di ironizzare anche sullo stupro e l’omicidio di una missionaria australiana, assassinata dopo una rivolta del carcere di Davao. “Il sindaco aveva diritto a prendersela per primo”, aveva detto in quell’occasione, nel lontano 1989, ammirando la bellezza della vittima. Durante la recente visita di Papa Francesco nelle Filippine, non ha esitato a insultare il pontefice, pubblicamente, per futili motivi. “Eravamo ingolfati nel traffico – spiegava il neopresidente in un comizio, a novembre - ho impiegato cinque ore per arrivare a destinazione. Ho chiesto i motivi dell’ingorgo e mi hanno spiegato che la strada era chiusa. Ho chiesto chi stesse arrivando e mi hanno risposto che c’era la visita del Papa. Lo volevo chiamare al telefono per dirgli: ‘Papa, figlio di p…, tornatene a casa! Non venire più a visitarci!’” In seguito, rendendosi conto della gravità della cosa, si è detto disposto ad andare personalmente in Vaticano per porgere le sue scuse e ha scritto una lettera di suo pugno a Papa Francesco.

I vescovi delle Filippine hanno sempre considerato Duterte come il peggior candidato possibile. "Un buon cristiano o qualsiasi cittadino in buona coscienza non potrebbe mai sostenere un candidato presidenziale che è un assassino di massa e che indica apertamente una politica di esecuzioni extragiudiziali come parte integrante del suo programma", aveva scritto monsignor Antonio Ledesma nella lettera pastorale "Questione di coscienza". Con toni ancor più duri, l'arcivescovo aveva palesato il pericolo di una nuova pericolosa dittatura asiatica: "Questo mostro infernale è un Pol Pot che non esiterà a uccidere masse di persone. Nuovi campi di sterminio come in Cambogia saranno un fenomeno diffuso se Duterte diventa Presidente". Non solo monsignor Ledesma, ma l'intera Conferenza Episcopale delle Filippine aveva esortato il popolo cattolico a non votare Dutarte. Alla vigilia delle elezioni, sacerdoti e suore si sono riuniti in preghiera per chiedere di "non votare per questo demonio", ritenuto "espressione delle forze del Male". Nonostante tutto, un popolo cattolico praticante lo ha votato a gran maggioranza. Perché interessa l’ordine pubblico e niente altro. E perché piace un uomo che "parla come mangia", rifiutando le ambiguità del linguaggio politically correct. E’ una tendenza che riguarda le Filippine, un paese dall’altro capo del mondo, ma non è così estranea al sentimento popolare delle destre che emergono in Europa e negli Stati Uniti.

Una volta presidente, Duterte sarà veramente così spietato? A giudicare dai suoi discorsi più seri, al di là delle sparate propagandistiche, probabilmente si rivelerà un uomo di governo molto più pragmatico. Ha infatti dichiarato l’intenzione di coinvolgere i musulmani nel negoziato sull’autonomia di Mindanao, isola in cui il 20% della popolazione è islamica e dove sono forti le infiltrazioni del radicalismo jihadista, sia di Al Qaeda che dello Stato Islamico. Ma soprattutto ha promesso che, con lui al vertice dello Stato, i comunisti saranno invitati a partecipare al governo e la lotta contro la Nuova Armata Popolare cesserà presto. Quest’ultimo punto è importante per capire se dietro Duterte vi sia effettivamente la Cina o no. La sua costosissima campagna elettorale è stata sostenuta con cospicui finanziamenti di imprenditori cinesi delle Filippine. E la comunità cinese locale, ricca e numerosa, lo ha apertamente sostenuto. Questo non vorrebbe dire. Ma un misterioso jet privato, arrivato dalla Cina, in piena campagna presidenziale, è atterrato a Davao, sollevando dubbi, pettegolezzi e indiscrezioni su trattative segrete in corso.

Nel programma elettorale di Dutarte c’è anche una nuova rete ferroviaria che sarà probabilmente costruita con soldi di una compagnia cinese. Infine, ma non da ultimo, la sua posizione su Scarborough, l’atollo al largo delle Filippine reclamato dalla Cina, sono passate dai toni aggressivi e nazionalisti a un più blando “parliamone”, anche attraverso un arbitrato internazionale e senza precondizioni. Insomma, se Duterte fosse il “Manchurian Candidate” voluto da Pechino per aggiudicarsi il controllo del Mar Cinese Meridionale? Non stupirebbe nessuno. D’altra parte, un candidato che si atteggia a dittatore è più affine al regime di Pechino che non alle altre democrazie asiatiche.