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il caso

Draghi, lezioncina contro la stagnazione che ha creato

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Draghi dimentica il suo passato: è stato lui, con altri tecnocrati europei, a promuovere politiche di austerità che hanno compresso la crescita e i salari per anni, contribuendo alla stagnazione economica che oggi dice di voler combattere.

Editoriali 20_03_2025 English Español

Mario Draghi è tornato al Senato e, come al solito, lo ha fatto con l’atteggiamento di chi viene a impartire una lezione, come se fosse l’unico depositario della verità assoluta. A che titolo si è presentato? Come consulente della Commissione Ue, certo, ma il tono e il modo con cui ha affrontato il confronto con i senatori hanno fatto emergere ancora una volta il suo stile professorale, sprezzante, talvolta perfino irridente. Non è passato inosservato il suo commento finale rivolto ai parlamentari presenti: «Sentite, io vedo che voi guardate l'orologio, quindi vi ringrazio moltissimo per l'attenzione. Grazie». Una chiusura che ha lasciato l’amaro in bocca, come se l’ex premier volesse sottolineare la scarsa considerazione che ha delle istituzioni democratiche, quelle stesse istituzioni che nel 2022 hanno deciso di voltargli le spalle e di porre fine alla sua esperienza di governo.

Draghi ha parlato per due ore e mezza, aggiornando le commissioni parlamentari su un nuovo Rapporto sulla Competitività europea, un tema di indubbia rilevanza, ma che non può certo essere affrontato con la supponenza di chi, negli anni passati, ha contribuito a creare molti dei problemi che oggi si dichiara pronto a risolvere.

L’Europa, ha detto Draghi, è più sola di quanto non si creda, minacciata dall’instabilità geopolitica e dall’incertezza economica. L’ex premier ha insistito sulla necessità di una crescita interna, ammonendo sui rischi delle soluzioni bilaterali e sottolineando la necessità di sviluppare il mercato europeo piuttosto che mantenere l’attuale surplus commerciale con il resto del mondo.

Fin qui nulla di strano, se non fosse che Draghi sembra dimenticare il suo stesso passato. È stato lui, insieme ad altri tecnocrati europei, a promuovere politiche di austerità che hanno compresso la crescita e i salari per anni, contribuendo alla stagnazione economica che oggi dice di voler combattere. Dov’era questa preoccupazione per la crescita quando, ai tempi della crisi greca, l’Europa imponeva tagli draconiani in nome del rigore di bilancio?

È un paradosso che non è sfuggito al senatore leghista Claudio Borghi, che ha fatto notare come Draghi ora parli di investimenti pubblici e debito comune, quando in passato negava che fosse possibile ricorrervi. «In passato Draghi diceva che non si poteva fare debito ma adesso per le armi si può? Scherzando ho detto che è un po' come Fonzie, non ha il coraggio di dire che ha sbagliato, doveva dire scusa ma non gli usciva», ha dichiarato Borghi. Il riferimento è al piano ReArm Europe, un progetto che Draghi sostiene per rafforzare la capacità militare dell’Unione Europea, mobilitando ben 800 miliardi di euro, una cifra colossale che, guarda caso, ora non sembra più un problema.

E poi c’è il tema dell’energia, su cui l’ex premier ha evidenziato come il prezzo del gas in Europa sia salito vertiginosamente, soprattutto in Italia, dove la tassazione sull’elettricità è tra le più alte del continente. Ha parlato della necessità di ridurre il costo dell’energia per imprese e famiglie, come se fosse un osservatore esterno, dimenticando che quando era al governo le bollette sono esplose, senza che il suo esecutivo trovasse soluzioni strutturali. Draghi ha sempre sostenuto la linea europea sulle politiche energetiche, comprese quelle che hanno portato a una dipendenza ancora maggiore dalle forniture estere e a costi insostenibili per il sistema produttivo italiano. Oggi si presenta in Senato parlando di competitività, ma senza fare il minimo accenno alle responsabilità politiche di chi, come lui, ha contribuito a rendere l’Europa più debole e vulnerabile.

Ma il punto più discutibile dell’intervento di Draghi è il suo atteggiamento. Non è solo una questione di contenuti, per quanto questi siano risultati a tratti contraddittori. È il modo in cui si pone, il suo rifiuto di mettersi in discussione, la sua incapacità di riconoscere gli errori del passato. È lo stesso Draghi che, durante la pandemia, lanciava proclami come «chi non si vaccina muore», contribuendo a una narrazione esasperata che ha diviso il Paese. È lo stesso Draghi che riteneva Luigi Di Maio uno statista e ne sponsorizzava la nomina a inviato dell’Ue nel Golfo, una scelta che oggi appare quantomeno discutibile. È lo stesso Draghi che, da premier, si spazientiva con chi osava metterlo in discussione, e che ora torna a presentarsi in Senato senza alcuna autocritica, senza la minima ammissione di colpe.

Questa audizione non è stata solo un aggiornamento sulle politiche europee, ma anche una dimostrazione del modo di intendere la politica da parte di Draghi. Un uomo delle istituzioni, certo, ma anche un uomo che fatica ad accettare le dinamiche della democrazia parlamentare. Non è un caso che, quando nel 2022 la sua maggioranza ha iniziato a scricchiolare, abbia scelto di andarsene senza negoziare, senza cercare soluzioni politiche.

Non è un caso che oggi, a distanza di tre anni, torni con lo stesso atteggiamento di superiorità, dando l’impressione che la politica sia solo un fastidio, un ostacolo sulla strada delle grandi strategie tecnocratiche. Il problema è che la politica, per quanto imperfetta, è il cuore della democrazia. Ed è anche il motivo per cui, nonostante la sua indubbia competenza, Mario Draghi non è riuscito a restare al governo: perché la politica richiede il confronto, l’umiltà di ammettere gli errori e la capacità di costruire consenso. Qualità che, ancora una volta, Draghi ha dimostrato di non possedere.