Draghi e il "dittatore" turco. Le parole hanno un peso
Se il premier Mario Draghi definisce "dittatore" il presidente turco Erdogan, ha un piano in mente? Vuole ribaltare la politica italiana nei confronti della Turchia, alleata nella NATO e finora considerata un partner strategico in Libia, assieme al Qatar? Siamo pronti a subire l'inevitabile, pesante, rappresaglia? Perché le parole hanno un peso.
Le dichiarazioni del presidente del consiglio Mario Draghi nei confronti del leader turco Recep Tayyip Erdogan sono oggetto di diverse interpretazioni da parte di analisti e politologi.
Non c’è dubbio che il capo del governo turco abbia atteggiamenti autoritari: ha imposto un regime che penalizza i diritti delle donne, la libertà di stampa, attua dure repressioni contro curdi e militari non allineati, ha incarcerato giudici, soldati e intellettuali con l’accusa di essere golpisti e attua una spregiudicata aggressività miliare dalla Libia al Mar Egeo al Nagorno-Karabakh.
Tutto vero ma definirlo, come ha fatto Draghi “un dittatore” rischia di apparire eccessivo è per molti motivi inopportuno. A proposito del cosiddetto “sofagate” Draghi ha espresso la solidarietà al presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen “per l’umiliazione che ha dovuto subire» aggiungendo che «con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono, di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell'esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società e deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese. Bisogna trovare il giusto equilibrio».
Una dichiarazione che suscita perplessità per come è stata espressa innanzitutto perché è arduo coniugare l’accusa di essere un dittatore con una forma qualsiasi di equilibrio. Attribuire la definizione di dittatore a Erdogan significa attaccarlo politicamente in modo pesante e senza lasciare spazio a dubbi e lo si fa perchè c’è una precisa volontà di contrastare Ankara su tutti i tavoli strategici, economici e politici. Peraltro Erdogan non è, tecnicamente, un dittatore dal momento che vince regolarmente le elezioni da quasi 20 anni (vittoria riconosciuta anche dalle opposizioni), in Turchia vige ancora il multipartitismo e i sindaci di molte importanti città appartengono a forze di opposizione. Più appropriato sarebbe attribuire il termine “dittatore” a Kim Jong Un, o a Xi Jinping che tengono le redini di regimi comunisti dove non vige il multipartitismo né si vota: ma con i cinesi, si sa, la cautela imposta dalle relazioni economiche ha sepolto persino le pesanti responsabilità di Pechino sulla diffusione globale del Covid.
Quanto a voto e a capi di governo rappresentativi della volontà popolare l’Italia si è trovata esposta alla reazione immediata di Ankara. «Condanniamo con forza le affermazioni brutte e senza controllo del primo ministro italiano nominato Mario Draghi sul nostro presidente eletto Recep Tayyip Erdogan» ha detto il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu. Certo la Costituzione italiana non prevede l’elezione popolare del capo di stato e di governo ma spiace dover ammettere che Erdogan è espressione della volontà popolare del popolo turco mentre Draghi non guida un partito o una coalizione che abbia vinto le elezioni.
Nessuna simpatia per Erdogan ma sarebbe davvero grave se la parola “dittatore” fosse stata pronunciata senza una precisa volontà e un determinato obiettivo politico o senza tenere conto che proprio questo premier italiano, pronunciandola, prestava il fianco a una ironica replica di Ankara dove nelle reazioni dei politici turchi sono abbondati, come prevedibile, i richiami alla storia italiana, al fascismo e a Mussolini.
Resta quindi da chiarire se con l’accusa di essere un “dittatore” rivolta al leader di uno stato nostro alleato nella NATO, nostro partner di riferimento in Libia e interlocutore di grande rilievo in ambito Ue, il governo italiano abbia voluto ufficializzare un riposizionamento politico, diplomatico ed economico nei confronti della Turchia, peraltro sostenuta (soprattutto in campo finanziario) dal Qatar, che è anche un grande partner economico e militare dell’Italia. Se Draghi e il suo governo hanno deciso di contrastare Erdogan e la crescente influenza turca nel Mediterraneo dobbiamo aspettarci un rapido mutamento della (finora evanescente) politica estera italiana. Ankara pretende scuse e rettifiche ed è potenzialmente in grado di farci molto male. Meglio non dimenticare infatti che la visita ad Ankara di Ursula von der Leyen e Charles Michel era incentrata sul rinnovo dell’accordo concordato nel 2015 da Angela Merkel ed Erdogan per il pagamento di 6 miliardi di euro di aiuti europei alla Turchia in cambio del contenimento dei flussi migratori illegali verso isole greche e Balcani.
Accordo di cui Erdogan pretende oggi il rinnovo a suon di miliardi. Rispetto agli anni scorsi però la Turchia ha assunto di fatto e militarmente il controllo di un’altra rotta mediterranea delle migrazioni illegali dirette in Europa, quella che dalla Libia conduce direttamente in Italia. La Guardia Costiera libica addestrata dalla marina turca (oltre che da quella italiana) ha finora svolto un ruolo egregio nel fermare migliaia di clandestini, ma l’arma dei migranti resta saldamente nelle mani dei turchi che detengono la leadership indiscussa a Tripoli dopo l’intervento militare che ha fermato e poi respinto le truppe del generale Khalifa Haftar. Se i turchi decidessero di ordinare ai marinai libici di lasciare in porto le loro motovedette (donate dall’Italia), barconi e gommoni tornerebbero a puntare indisturbati su Lampedusa. Ankara controlla anche le partenze dei velieri carichi di immigrati clandestini che da Smirne salpano verso la costa ionica della Calabria: alcune di queste imbarcazioni sono state fermate dai turchi che domani però potrebbero chiudere entrambi gli occhi…
Una minaccia che colpirebbe un’Italia già fin troppo esposta sul fronte migratorio, con sbarchi triplicati nei primi tre mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2020 quando furono il 300% in più del 2019. Inoltre tutta la presenza italiana in Tripolitania, dalle due basi militari al ruolo dell’ENI e di altre aziende italiane dipende oggi più dalla volontà dell’egemone Turchia che dall’amicizia per l’Italia dei governanti libici.
Per tutte queste ragioni criticare Erdogan è doveroso, ma occorre evitare la tendenza a usare termini inadeguati ai rapporti politici internazionali varata da Joe Biden quando ha accusato Vladimir Putin di essere “un assassino”: espressione infelice che ha permesso al presidente russo di ridicolizzare il suo interlocutore facendolo apparire inadatto al ruolo che ricopre. Le parole hanno un peso e per questo è lecito attendersi che chi ha responsabilità di governo le metta sulla bilancia prima di pronunciarle: alcune sono “senza ritorno” o comunque destinate a scavare fossati e prolungati imbarazzi. Con quale faccia Biden potrà incontrare l’assassino Putin a un summit internazionale in cui dovrà persino stringergli la mano? Come potrà Draghi salutare anche con cordialità di circostanza il dittatore Erdogan al prossimo vertice dei capi di governo della NATO?