"Dottrina Blinken": la nuova guerra fredda con la Cina
La guerra è in Ucraina, ma gli Usa sono costantemente rivolti verso il Pacifico. È questa la prima lezione che si trae dal discorso programmatico di Antony Blinken, Segretario di Stato degli Usa, alla George Washington University. Il titolare della politica estera Usa illustra tutte le misure di contenimento della Cina con gli alleati asiatici.
La guerra è in Ucraina, ma gli Usa sono costantemente rivolti verso il Pacifico. È questa la prima lezione che si trae dal discorso programmatico di Antony Blinken, Segretario di Stato degli Usa, alla George Washington University. Il suo discorso è del 26 maggio e ha già avuto ricadute pratiche.
Blinken riconosce che «Il presidente russo Vladimir Putin pone un pericolo immediato. Attaccando l’Ucraina tre mesi fa, ha anche aggredito i principi di sovranità e di integrità territoriale, sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite per proteggere tutti i Paese dall’invasione o dalla coercizione». La tesi, tipica dell’amministrazione Biden è però quella secondo cui Putin si starebbe “danneggiando da solo” perché ha già provocato una reazione politica che sta isolando la Russia dalle relazioni mondiali. Quel che preoccupa realmente gli Usa, dunque, è l’altra potenza emergente, la Cina. «Anche se la guerra del presidente Putin continua, noi rimarremo concentrate sulla più grande sfida di lungo termine all’ordine internazionale, quella posta dalla Repubblica Popolare Cinese», dice testualmente il titolare della politica estera statunitense.
La Cina viene considerata come la minaccia più grave perché «È il solo Paese che ha sia l’intenzione che i mezzi per cambiare l’ordine internazionale, dispone di una crescente capacità economica, diplomatica, militare e tecnologica per farlo. La visione del mondo di Pechino ci porterebbe lontani da quei valori universali che hanno sostenuto gran parte dello sviluppo umani negli ultimi 75 anni». Blinken ritiene che la Cina possa essere cooperativa su sfide globali. In modo abbastanza infelice cita proprio il Covid-19 fra queste (considerando la responsabilità oggettiva della Cina nella sua diffusione iniziale, a causa del segreto imposto dalle autorità sulla sua esistenza…), oltre al solito cambiamento climatico, ossessivamente presente in tutti i discorsi ufficiali dell’amministrazione Biden. Ma la critica al ruolo cinese supera ogni riconoscimento.
«Invece di usare il suo potere per rinforzare e rivitalizzare le leggi, gli accordi, i principi, le istituzioni che hanno reso possibile i suoi successi, così che anche altri Paesi possano beneficiarne, Pechino li sta minando. Sotto il presidente Xi, il Partito Comunista Cinese al potere sta diventando più repressivo in patria e più aggressivo all’estero». Per contrastare questa tendenza, come in una nuova strategia del contenimento, «Non possiamo contare su Pechino per cambiare la sua rotta. Così noi formeremo un nuovo ambiente strategico attorno a Pechino per portare avanti la nostra visione del sistema internazionale, aperto e inclusivo».
La sfida è su almeno tre piani: politico, diplomatico ed economico. Dal punto di vista politico, come ai tempi dell’Urss, gli Usa devono dimostrare la superiorità del sistema democratico (nonostante la grave crisi della democrazia che tutto il mondo ha visto nel 2020-2021) rispetto a quello comunista a partito unico. «Ora Pechino pensa che il suo modello sia il migliore, che un sistema centralizzato guidato dal Partito sia più efficiente, più disciplinato, superiore alla democrazia. Noi non cerchiamo di cambiare il sistema cinese. Il nostro compito è invece quello di dimostrare, ancora, che la democrazia può affrontare sfide urgenti, creare opportunità, promuovere la dignità umana, che il futuro appartiene a coloro che credono nella libertà».
Sul piano diplomatico, gli Usa non possono contare, nel Pacifico, sull’equivalente di una Nato. Devono appoggiarsi su una serie di relazioni bilaterali, comunità economiche e partnership. Il viaggio di Biden in Giappone e Corea del Sud è servito a rilanciare i rapporti con i due maggiori alleati militari della regione. Per coinvolgere più Paesi possibili, l’amministrazione ha anche varato la Indo-Pacific Economic Framework (Ipef), un’area di cooperazione che include anche tutti i Paesi del Sudest asiatico, ma a carattere puramente economico. Biden ha anche rilanciato, con un primo incontro al vertice, la partnership delle quattro maggiori potenze, Australia, Giappone, India e Usa (Quad) della regione indo-pacifica. Sta cercando di rilanciare il ruolo dell’Asean, anche questa un’organizzazione solo economica e politica, non un’alleanza militare. E infine ha varato un rapporto di partnership per la condivisione di tecnologia militare, con Regno Unito e Australia, l’Aukus.
Non manca la condanna alla violazione dei diritti umani in Cina. Nello specifico sono stati indicati la persecuzione degli uiguri nello Xinjiang, quella dei tibetani e la fine dell’autonomia nel Tibet. Questi crimini, per Blinken, che non teme di usare la parola “genocidio” (degli uiguri) hanno anche ricadute internazionali. «Il trattamento riservato alle minoranze etniche e religiose nello Xinjiang e in Tibet, così come molte altre azioni, è contrario ai principi fondamentali della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani a cui tutti i Paesi devono aderire. Reprimendo la libertà di Hong Kong, Pechino sta violando gli impegni presi al momento della restituzione, sanciti da un trattato depositato presso le Nazioni Unite».
Per quanto riguarda Taiwan, che gli Usa non riconoscono e che non è stata invitata a far parte dell’Ipef, Blinken ribadisce che la politica americana non cambia, nonostante le recenti dichiarazioni del presidente Biden riguardo alla possibilità di intervento militare americano in caso di invasione cinese. Ma il Segretario di Stato mantiene volutamente un po’ di ambiguità, nel momento in cui afferma: «Mentre la nostra politica non è cambiata, quel che è mutata è la crescente pressione di Pechino, nel cercare di tagliare le relazioni di Taiwan con gli altri Paesi del mondo e impedendole di partecipare alle organizzazioni internazionali. E Pechino è impegnata in crescenti provocazioni, retoriche e militari, come far volare gli aerei militari vicino a Taiwan, quasi quotidianamente». Quindi, se la situazione è cambiata, cambierà anche la postura americana su Taiwan? Intanto i marines sono sull’isola, impegnati in missione di addestramento.
L’attivismo diplomatico americano ha sortito già i primi effetti nello scacchiere del Pacifico. La Cina era impegnata nella sua ricerca di nuovi alleati fra le nazioni insulari (già teatro della Guerra del Pacifico con il Giappone del 1941-45), come le isole Salomone, Micronesia Fiji. Ma il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, ha dovuto annunciare ieri il fallimento delle intese sulla sicurezza. Frank Bainimarama, primo ministro delle Fiji ha twittato che: «Le Fiji non sono il cortile di casa di nessuno e la nostra più grande preoccupazione non è la geopolitica ma il cambiamento climatico». Il presidente della Micronesia, David Panuelo, ha invece ritenuto che i piani della Cina nel Pacifico fossero una minaccia per la stabilità, alimentando il rischio una nuova “guerra fredda” tra Pechino e gli Usa. La Common Development Vision, annunciata da Wang Yi e proposta alle nazioni insulari di Samoa, Tonga, Kiribati, Papua Nuova Guinea, Vanuatu, Salomone, Niue, oltre a Micronesia e Fiji, sta naufragando sul nascere, in mezzo al Pacifico. I progetti americani per la regione, almeno in questa fase, costituiscono una fonte di attrazione migliore.
La Cina, comunque, non rinuncerà al suo progetto di costruirsi la sua rete di alleati nel Pacifico. Conta sul rancore anti-occidentale di tutti i popoli insulari, la paura (alimentata, per altro, quasi solo dai governi e dai media occidentali) di rimanere vittime del cambiamento climatico “provocato dall’Occidente”. Il presidente di Timor Est, José Ramos-Horta, così commentava la sfida diplomatica nel Pacifico: «Le isole hanno gravi problemi sociali ed economici, ma i Paesi occidentali ci fanno le prediche sui diritti umani invece che aiutarci». La Cina, al contrario, paga e basta. È lo stesso discorso che si è sentito tante volte anche in Africa.