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ISLAM

Dopo Strasburgo, continua la fabbrica dei "radicalizzati"

Cherif Chekatt, il terrorista ventinovenne magrebino, ucciso oltre 48 ore dopo l’attentato nel quartiere Neudorf, era già noto alle forze dell’ordine per una ventina di cosiddetti “reati minori” sulla fedina penale. Era un islamico "radicalizzato", un fenomeno che prima veniva associato solo all'Isis. Ma che continua anche dopo l'Isis la fabbrica dei radicalizzati, nelle moschee, continua a sfornarne

Esteri 15_12_2018
Cherif Chekatt

Cherif Chekatt, il terrorista ventinovenne magrebino, ucciso oltre 48 ore dopo l’attentato nel quartiere Neudorf, era già noto alle forze dell’ordine per una ventina di cosiddetti “reati minori” sulla fedina penale. Avrebbe dovuto essere arrestato nell’ambito di un’inchiesta per estorsione la mattina di martedì, ma la polizia non è stata capace di trovarlo. E di questo ne hanno scritto in tanti. Meno ci si è concentrati sul fatto che per la prefettura era stato classificato come Fiché S, che corrisponde a “elemento religioso radicalizzato islamico”. Anzi, solo pochi minuti dopo l’attentato, in piena caccia all’uomo, s’è iniziato a speculare circa l’appartenenza o meno del terrorista all’Isis e, più in generale, sul coinvolgimento diretto del Califfato.

Daesh, come è noto, è in crisi. L’idea di Stato islamico è praticamente scomparsa, perché i jihadisti non possiedono praticamente più alcun territorio, se non poche sacche di resistenza in Siria e in Iraq. I punti centrali di Raqqa che pianificavano gli attentati contro l’Occidente sono ormai scomparsi. Ma i lupi solitari sono pronti a colpire, anche senza alcun coordinamento con la cellula madre. E questo non rappresenta un problema. Il sedicente stato islamico è nato come tentativo di dare un riferimento gerarchico all’islam che non è solo una religione, ma un progetto politico. L’islam è privo di un’autorità con cui negoziare a nome di tutta la comunità religiosa. Per tale ragione non si può parlare di “nuovo terrorismo” e di “attentatori ibridi”, come si fa da giorni.

I tipi come Cherif Chekatt non sono semplici banditi a cui il jihadismo appare solo come un modo diverso per fare carriera nel mondo della criminalità, e magari finire in prima pagina. Perdipiù nel caso specifico, dove l’intelligence francese, come spiegato dal sottosegretario di Stato del ministero dell’Interno, Laurent Nuñez, è convinta che il movente dell’attentato sia legato soprattutto a un irrigidimento delle pratiche religiose. Quindi radicalizzazione. Che non necessita per forza di preparazione costante, di addestramento, di una profonda e diretta appartenenza alla cellula madre del jihadismo. La vocazione alla “guerra santa” non è la naturale conseguenza di povertà, criminalità, ignoranza. E forse non lo hanno capito a Parigi: hanno preferito, come altre volte in passato, uccidere il terrorista invece di tentare di cavare qualche informazione, possibili complici o istigatori, la rete a cui era legato.  

Maroni, l’ex ministro dell’interno italiano, ci ha tenuto a sottolineare subito un aspetto della vicenda: “l’attentatore è nato a Strasburgo ma è di origine magrebina e questo richiama i temi dell’integrazione. Manca un’azione efficace da parte dell’Europa; la politica e chi governa dovrebbero prendere decisioni più severe su questi personaggi”. Introducendo il capitolo più importante di questa storia, la “radicalizzazione”. E al primo paragrafo troviamo sicuramente il problema dell’emergenza della radicalizzazione islamica nelle carceri del Vecchio Continente. Le antenne già erano state rizzate tempo addietro, quando nel 2014 un rapporto del Daily Caller con l’allora direttore dell’FBI Robert Mueller denunciò al comitato del Senato l’emergenza carceri per la radicalizzazione in Occidente. Provando così a scoperchiare un vaso di Pandora in realtà già ben noto e dovutamente ignorato: è la galera il nuovo terreno fertile per i jihadisti che indottrinano e reclutano altri detenuti al progetto politico dell’islam. Proprio le carceri francesi sono in subbuglio da tempo. Nel 2015 un rapporto ufficiale del senatore francese Jean-René Lecerf citava uno studio secondo il quale in quattro dei più grandi penitenziari francesi, oltre il 50 per cento dei detenuti è musulmano. Secondo il ministero della Giustizia, erano già allora 500 i musulmani detenuti per reati legati al terrorismo e altri 1200 erano i criminali identificati come islamici radicali. Oggi, a partire da qualche mese, 50 terroristi e 400 pericolosi radicalizzati che avranno scontato la loro pena, torneranno a piede libero. Un’inchiesta del giornale Le Parisien rivela che a tutt'oggi sono 510 i detenuti in Francia condannati per fatti legati al terrorismo, ai quali si devono aggiungere i 1.200 detenuti per reati comuni che risultano “radicalizzati”. E numeri simili, in alcuni casi anche peggiori, riguardano anche il resto d’Europa.

Ma pochi in Occidente hanno familiarità con il modus operandi di quanti hanno messo i terroristi sulla strada del jihad accompagnandoli lungo il percorso della radicalizzazione. Un ruolo da protagonista spetta sicuramente ai rispettabili imam locali, siano essi assegnati ai vari quartieri europei o alle prigioni. Dietro ogni jihadista c’è un pulpito di natura ideologica che promette ricompense e minacce. Studi di casi dettagliati ci mostrano come i predicatori tentino, anzitutto, di terrorizzare l’uditorio con passaggi sul destino che tocca agl’infedeli, l’inferno musulmano, la vergogna per coloro che si dimostrano riluttanti a prendere parte attivamente all’islamizzazione. Una folta letteratura che concorre a instillare un profondo senso di crisi, acuito da tutte quelle nozioni circa la superiorità islamica. Il passaggio successivo è il Corano. La lettura e la predicazione, graduale, di sure e hadith, è un’escalation di retorica il cui fine è la richiesta esplicita della restaurazione del califfato attraverso il jihad globale. Il predicatore, poi, decide se è arrivato il momento per il combattimento o occorre aspettare. Decisione che dipende dal peso che una comunità musulmana ha raggiunto nel paese ospitante.  

Dopo la presentazione del Corano e della vita di Maometto per spiegare anche la geopolitica moderna, il predicatore si sofferma sull’assenza di distinzione tra libertà private e bene pubblico. Corti della Shari'a, lo Stato che deve lasciare il posto al califfato. I costumi, la morale e il culto come ostentazione, servono a consolidare i credenti e a unirli, compatti, nella causa del jihad - che alla fine implica una guerra cruenta. Sullo sfondo di ogni gesto il tema che tutti gl’infedeli devono essere tenuti in perpetua ostilità finché, come è scritto nel Corano, “la parola di Allah regnerà sovrana”.

Tra le ragioni per cui questo processo di radicalizzazione passa inosservato in Occidente c’è anche il linguaggio utilizzato. Gli imam e gli intellettuali islamisti si servono di termini che sono apparentemente identici a quelli del discorso giudeo-cristiano, ma che hanno una connotazione completamente diversa in arabo. Salaam , “pace”, è quella che regnerà solo dopo che il mondo intero avrà accettato di vivere sotto il dominio dell'islam. Shihada, “martirio”, di solito si riferisce all'atto di coloro che uccidono o s’uccidono per andare in paradiso.  Qassas, erroneamente interpretato come “giustizia”, sarebbe meglio traducibile come vendetta.

La tendenza di molti musulmani a diventare più religiosi una volta arrivati in Europa è un dato di fatto ed è stata anche rappresentata in una nuova serie di documentari, “False Identity”, del giornalista arabo Zvi Yehezkeli, che andò sotto copertura per riferire sulle attività dei Fratelli Musulmani in Europa e Stati Uniti. Non si contano, invece, le indagini sui musulmani che, arrivati in Occidente, “irrobustiscono la loro fede”. La metà degli intervistati ha affermato che la religione svolge ora un ruolo più importante nella vita quotidiana in Europa di quanto non fosse nel loro paese d'origine, e il 51,6% ha sottolineato che la supremazia dell'islam rispetto alle altre religioni è indiscussa.

“Perché le autorità si sono arrese?”, si domandava l’ex ministro Collomb qualche mese fa, mentre puntava il dito contro il contesto ideologico, lasciato prevalere per troppo tempo in Francia. Soprattutto nella scuola, la “società inclusiva” ha finito con l’espellere la civiltà occidentale dalla Francia.  Al punto che si parla, ormai, di “riconquista repubblicana”. C’è veleno in circolo in una Francia che può morire, e neanche noi possiamo sottovalutare un contesto che ci riguarda da vicinissimo.