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Don Meschi curava i disagi della società del benessere

Il prete ambrosiano, ucciso da uno dei suoi ragazzi nel 1991, era innamorato della sua vocazione fino a consumarsi in confessionale e nella carità operosa verso qualsiasi bisogno, compresi quelli dei giovani portati fuori strada dalle dipendenze e dalla cultura dello sballo.

Ecclesia 14_02_2023

Una folla enorme si accalca nella grande basilica di San Giovanni, sulla piazza antistante e persino nelle vie laterali. Un popolo commosso e incredibilmente silenzioso si stringe attorno ad una bara, nel giorno del funerale di don Isidoro Meschi, sacerdote ambrosiano, ucciso con un’unica coltellata al cuore il 14 febbraio del 1991, quattro mesi prima del suo 46° compleanno.

A togliergli la vita è stato uno dei “suoi” ragazzi, uno di quelli che, fin da giovanissimi, avevano sperimentato l’immensa carità del sacerdote e che, geloso delle sue attenzioni, non riusciva più a sopportare di doverle dividere con una nutrita schiera di persone, ciascuno in fila con i propri bisogni: la penitente in cerca di una solida direzione spirituale, la studentessa in crisi, il malato e tanti giovani rovinati dalla droga. Sì, perché il ministero di don Isidoro, detto Lolo, si spende nel cuore di Busto Arsizio, operosa città della provincia di Varese, proprio nell’epoca in cui l’eroina travolge e uccide centinaia di giovani.

Sono gli anni Ottanta e, assieme al benessere, cresce la domanda di senso dei ragazzi, anche di quelli che hanno frequentato l’oratorio e che, nonostante tutto, si tuffano nello “sballo”, rimanendone intrappolati. Don Lolo non può rimanere indifferente e, con l’aiuto di associazioni locali, riesce ad avviare una prima cordata di volontari dediti all’assistenza dei tossicodipendenti. Intanto riesce a trovare i fondi per acquistare una struttura dove accoglierli: con l’aiuto di tante mani amiche, quelle dei giovani dell’oratorio, di pensionati di buona volontà, di uomini e donne che rinunciano per questo alle vacanze, ristruttura una vecchia cascina per farne una comunità di recupero, tutt’oggi attiva.

Nel 1987, quando accoglie i primi ospiti, don Isidoro ha pronto per loro un metodo di recupero, condensato nel testo Dallo sballo all’empatia, che ha elaborato studiando di notte testi di psichiatria, psicologia, medicina, pedagogia. Un’impresa intellettuale di non poco conto, se si considera, oltretutto, che all’epoca non esistevano risposte da parte del servizio sanitario pubblico e che quella di don Lolo era davvero un’opera pioneristica, maturata tra le mille occupazioni che lo impegnavano. Innanzitutto quelle legate al suo sacerdozio: don Isidoro era innamorato della sua vocazione e lo comunicava anche fisicamente, a partire da quella talare che non toglieva mai, neanche quando, bloccatola con mollette da bucato, macinava chilometri in sella alla sua bicicletta.

D’altronde fin da bambino aveva sentito così forte la chiamata al sacerdozio che, persino quando suo padre morì prematuramente, il sedicenne Lolo non cedette alle richieste di lasciare il seminario da parte della madre disorientata e, con ferma dolcezza, la convinse a lasciarlo proseguire. Definì sé stesso: “prete felice” e lo dimostrava nel confessionale, dove passava ore senza mai stancarsi. Fuori c’era sempre una fila di penitenti ad attendere: nessuno se ne andava insoddisfatto, piuttosto c’era da stupirsi della sua estrema sensibilità, della capacità di orientare in maniera esemplare qualunque fosse il tema del discernimento. Durante la messa il sacerdote schivo e quasi timido sembrava “trasfigurarsi” fisicamente mentre si immergeva totalmente nel mistero di Dio al momento della consacrazione, tanto da lasciare interdetti i parrocchiani.

Il suo profondo amore per il Padre, poi, si traduceva in carità operosa a servizio di tanti bisognosi. Non solo i tossicodipendenti, ma anche Maurizio, il ragazzo fragile che l’avrebbe ucciso, il vedovo lamentoso che il sacerdote ascoltò con pazienza tutte le mattine per anni, il collega malato, la moglie in crisi, il povero che passava davanti alla sua sagrestia. Lui arrivava ovunque, anche se per farlo doveva offrire ogni fibra di sé stesso, così che anche di notte dormiva pochissimo. “Dopo Dio, c’è l’orologio”, amava ripetere ai suoi ragazzi dell’oratorio centrale di San Luigi, con i quali sapeva vestire i panni del compagno di gioco, allegro e un po’ rude, impossibile da battere sui campi di pallone e nella corsa, salvo quando c’era da lasciare la vittoria a quelli meno capaci.

I giovani don Lolo li frequentava anche in due istituti cittadini, una scuola media e il liceo classico locale, dove era un professore di religione fuori dal comune. Bastava il suo carisma a catturare l’attenzione degli studenti, mentre le sue lezioni di profondo livello teologico, il cui linguaggio era sempre adattato alle diverse capacità di comprensione, lasciavano puntualmente il segno.

Furono proprio le sue straordinarie doti intellettuali a destinarlo, suo malgrado, alla direzione giornalistica del settimanale diocesano Luce, per anni regolarmente aperto dai suoi editoriali, così lucidi e penetranti al punto da risultare profetici e ancora attuali.

Era probabilmente destinato ad incarichi ecclesiali di prestigio, ma l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini esaudì il suo desiderio di restare a Busto, così che potesse seguire la sua opera a favore dei tossicodipendenti. La sua vita, già così fitta di impegni, nell’ultimo anno si fece ancora più frenetica: gli venne assegnata una parrocchia di nuova fondazione, mentre l’assistenza ai tossicodipendenti gli assorbiva ogni istante libero. Era visibilmente stanco, don Lolo, e Maurizio non accettava di dover dividere le attenzioni del suo amico con tutti quei disperati.

Fu così che in quella tragica sera di San Valentino prese il coltello e lo raggiunse alla comunità. La madre, allarmata, con una telefonata avvisò il sacerdote che, al suono del campanello, volle affrontare il giovane da solo, per proteggere i ragazzi della comunità ignari del pericolo. La mano di Maurizio fu davvero fatale: bastò un unico colpo, così preciso che non causò la fuoriuscita di una sola goccia di sangue, per far crollare don Lolo a terra, mentre un misterioso sorriso di beatitudine sbocciava sul suo volto. La sua vita finì a 46 anni non ancora compiuti, come più volte lui stesso aveva profetizzato, nello sconcerto dell’intera città.

Al suo popolo, però, lasciò un ultimo, sorprendente regalo: pochi mesi prima della morte aveva confessato agli amici di avere scritto il proprio testamento, che fu ritrovato proprio prima del funerale e letto in quell’occasione. Diceva:

Sorelle e fratelli che mi avete conosciuto, accorgetevi che Gesù, Emmanuele, Cristo Signore è davvero in sovrabbondante, gioiosa pienezza Via, Verità, Vita. In Lui, con Lui, per Lui, scoprite quanto è bella la vita, in tutte le sue espressioni autentiche. Essa, può, forse, sembrare breve, deludente, anche crudele; è invece l’appuntamento e il cammino con l’immolarsi di Gesù per noi, perché noi possiamo credere, sperare, amare fino alla Risurrezione, fino alla vita eterna. Davanti a qualsiasi fratello, abbiate il coraggio di non chiudere né mente, né cuore; Gesù ce ne rende capaci e ci fa avere il “Suo centuplo”. Ricordatevi che, credendo in Cristo, abbiamo la incommensurabile ricchezza di poter pregare; non rinunciate mai a mettervi sempre quali discepoli che vogliono imparare a pregare. Adesso, sapendo che ogni giorno è reso dallo Spirito Santo Pentecoste, uniti a Maria che ci è Madre e Maestra nel permettere alla parola di Dio di illuminare e glorificare l’uomo, ricordando un poco pure me, elevate insieme la preghiera che il Vangelo di Gesù ci insegna: Padre Nostro...