Don Matteo, le ragioni di un grande successo
Don Matteo, il prete-detective interpretato da Terrence Hill (che si ispira al Padre Brown di Chesterton) sfonda anche nella sua nona stagione. Lo sceneggiatore Mario Ruggeri ci spiega le ragioni di un successo della fiction italiana.
Cosa si cela dietro il successo della fiction italiana Don Matteo? Giunta alla nona stagione, la nuova serie di Don Matteo è partita su Raiuno lo scorso 9 gennaio ed ha raggiunto tutti i giovedì di messa in onda una fetta di pubblico che si aggira intorno agli 8 milioni di telespettatori e uno share che oscilla tra il 28 e il 30%. Un risultato inaspettato persino per gli stessi creatori e sceneggiatori della serie che avevano ipotizzato molto meno. Le avventure del prete in giallo, interpretato dal bravo Terrence Hill, sembrano aver conquistato il cuore di una certa Italia in cerca di prodotti televisivi dove il divertimento si concilia alla perfezione con la riflessione in un prodotto finito in cui la finalità etica e quella educativa non sono banali né scontate.
Non c’è mai violenza in Don Matteo, non ci sono serial killer che si aggirano per la piccola cittadina di provincia, solo in rari casi i colpevoli si macchiano del crimine di omicidio, mai cattiveria pura negli atti che si commettono e non di sente dire neanche un parolaccia, a meno che questa non si renda utile ai fini del racconto e non abbia uno scopo ben preciso come accade nella recente puntata in cui il simpatico Maresciallo Cecchini insegna per sbaglio alla nipotina una brutta parola e, nel tentativo di riparare il danno, la convince che vuol dire “ti voglio bene” incurante dei danni. Una scelta quasi voluta per ricordare a noi grandi che i bambini ci guardano e ripetono quello che facciamo e diciamo.
Speranza e redenzione sembrano essere le due parole chiave con cui descrivere questa fiction prodotta dieci anni fa dalla Lux Vice, società fondata nel 1992 da Ettore Bernabei (direttore in Rai dal 1960 al 1974) insieme ad un gruppo di imprenditori. Scommettendo su un meccanismo fisso che si ripete di puntata in puntata attraverso un equilibrio perfetto che si sviluppa intorno ad un giallo su cui si ritroveranno ad indagare, con finalità diverse, sia Don Matteo che i carabinieri della piccola cittadina di Spoleto – che da quest’anno sostituisce la storica Gubbio – la serie si presenta come una riflessione etica su quegli errori commessi da esseri umani che hanno perso il senno o semplicemente sono stati sopraffatti dalla realtà tanto da non rendersi conto, nell’immediato, delle conseguenze delle loro azioni. A questa formula fissa si aggiungono poi tanti altri elementi, come ci spiega Mario Ruggeri, sceneggiatore della fiction a cui abbiamo rivolto alcune domande per capire meglio le ragioni di questo fenomeno televisivo.
Partiamo dai numeri. Nelle ultime puntate trasmesse (Vicini e incredibilmente lontani e Scommessa perdente) Don Matteo 9 ha registrato uno share del 28,37% con il primo episodio e uno share superiore al 30% con il secondo. Lei che Don Matteo lo conosce bene perché lavora da anni su questo prodotto televisivo italiano, si aspettava tutto questo successo dopo 9 stagioni? A cosa crede sia dovuto l’affetto della gente nei confronti di questa fiction?
Non me l’aspettavo assolutamente. Forse neanche nella serie precedente. Raggiungere il 20/21% di share è già un buon risultato. Non pensavo di fare questi numeri. E credo che nessuno se lo aspettasse neanche tra di noi. Siamo riusciti ad aumentare il pubblico di circa un milione rispetto alla stagione precedente. Il motivo principale del successo della serie in generale è che una fiction pulita, un fiction per la famiglia che si può guardare insieme ai figli. Non è volgare né violenta. Secondo me c’è anche un altro elemento ed è che la gente ci si riconosce. Don Matteo racconta di quella gente normale che in tv non viene mai raccontata. La gente che va messa, che va al bar, che si raccoglie nelle piazze, che va ad ascoltare la banda. Un’Italia non rappresentata, che non si vede mai nella fiction che solitamente mostra sempre personaggi straordinari e mai la vita quotidiana. Quella di Don Matteo, inoltre, è anche una famiglia atipica perché il padre è un prete. Le due famiglie presenti, quella della canonica e quella del Maresciallo Cecchini, sono famiglie molto tradizionali che vivono nella normalità. La gente si rivede e si riconosce in queste famiglie.
Don Matteo è una fiction del panorama italiano concepita per un target familiare/generalista. Quali scelte avete operato per distinguervi da tanti altri prodotti?
Quello di Don Matteo è stato un percorso. La prima serie si concentrava solo sul prete che investiga, era molto più orientata sul giallo. Poi pian piano si è aggiunta la commedia perché abbiamo visto sul set che Nino Frassica (che nella serie interpreta il maresciallo Cecchini ndr) e il capitano Anceschi (Flavio Insinna dalla prima alla quinta serie) funzionavano benissimo insieme. Poi si è aggiunto l’elemento sentimentale tra Anceschi e il sindaco che era interpretato da Milena Amicone. Successivamente sì è puntato anche sull’elemento teen, con storie di prigione ed è nata la storia di Laura che resta incinta a 16 anni e che si ispira al film Juno. Da quest’anno c’è anche Andrè Gil, inserito con l’intento di raggiungere un certo tipo di pubblico, che con la sua presenza rafforza le situazioni. Tutti questi elementi combinati insieme hanno fatto sì che diventasse pian piano una cosa per famiglie. E, ripeto, è una fiction senza volgarità che uno può vedere con i propri figli. Non è una cosa scontata. Bernabei ci dice sempre che non vuole parolacce ed è una cosa che la gente ancora apprezza.
Ci sono delle serie che vi hanno ispirato e che considerate vicine al vostro lavoro?
Don Matteo è un po’ atipico. Ci siamo ispirati a tanti piccoli pezzi di film. Abbiamo ripreso la tematica della ragazza incinta ispirandosi a Juno che è una bella storia profonda. Ci siamo ispirati a tanti film dei fratelli Dardenne, o film di Virzì come Tutta la vita davanti. Storie che poi noi cerchiamo di mettere dentro la fiction a modo nostro, sviluppandole in maniera televisiva all’interno delle linee verticali (quelle storie che iniziano e si concludono nell’arco di una puntata ndr).
In particolar modo, per il personaggio di Don Matteo a quali figure di preti vi siete ispirati? Don Matteo che tipo di prete è? Qual è il suo atteggiamento nei confronti del mondo che lo circonda?
La figura di riferimento è sempre stata Padre Brown di Chesterton. In questo senso Don Matteo è un investigatore dell’anima. Poi, naturalmente, a questo personaggio, ha aggiunto molto Terence Hill che ha portato un po’ del suo Trinità, sempre con misura. Al posto del cavallo c’è la bicicletta, una scelta non scontata perché rappresenta la fisicità. Avevamo pensato a una moto ma la bicicletta ci dava l’idea di una fatica, di uno sforzo maggiore. Anche la tonaca sembra un po’ spolverino da cowboy. Insomma in Don Matteo c’è anche un po’ di western. Il suo è un atteggiamento di speranza. Don Matteo pensa che ci sia speranza per tutti, anche per chi ha commesso un omicidio. Una delle cose che diciamo agli scrittori che si approcciano al progetto di Don Matteo è che lui non è un poliziotto, non gli interessa sapere la verità quanto dare una speranza a chi si è macchiato di un crimine.
Gelosia, amore, vendetta, risentimento, rancore, perdono, amore. In Don Matteo si raccontano storie che parlano di argomenti, tematiche e sentimenti vicini all’essere umano con un finale che invita spesso ad una speranza. In particolar modo la sensazione è che uno dei fili comuni ai vari episodi sia la redenzione. C’è nella serie una finalità etica? In che modo i valori cristiani si conciliano con storie molto vicine a quella che è la nostra realtà?
La redenzione? Assolutamente sì. La scena finale la chiamiamo proprio così, la redenzione. Il senso di tutto sta nel capire le motivazioni del colpevole e dare una speranza a questo colpevole. E partiamo sempre da lì. Anche quando costruiamo i gialli ci chiediamo il perché, qual è la motivazione del colpevole. E la risposta di Don Matteo è sempre una risposta cristiana. Ci chiediamo perché il colpevole ha commesso un omicidio e cosa potrà dire Don Matteo per ridargli una speranza, per dare un nuovo senso alla vita che avrà di fronte dopo che avrà pagato il suo debito. Tanto è vero che in Don Matteo non ci sono pazzi o serial killer. Un pazzo non si può redimere, Don Matteo non potrebbe mai dare un senso ad un uomo che l’ha perso. Lui ha sempre di fronte un uomo che ha sbagliato e gli fornisce una contro-motivazione, una risposta etica che gli apre una nuova visione della vita, che è una visione cristiana.
Alcuni dei momenti più divertenti della serie sono i continui battibecchi tra Cecchini e il Capitano. Come sono nati questi due personaggi?
La parte comica è nata sul set. Si è visto sul set che improvvisavano molto e che funzionavano. E allora si è dato sempre più spazio a questa coppia comica tant’è vero anche quando è uscito di scena Anceschi si è creata la stessa cosa con Tommasi.
Il Capitano in questa nuova stagione ha subito anche una grave perdita, quella della moglie, ed è papà di una bimba piccola. Cosa gli riserva il futuro?
Sì, diciamo tra due donne ma è tutto aperto. Sta bene lì… (ride ed io capisco che non si vuole sbilanciare e per rispetto del pubblico e delle future sorprese, va bene così).
Il sistema seriale italiano si sta evolvendo. Quali pensa che siano gli scenari futuri? E in che modo la televisione può essere utilizzata per trasmettere messaggi cristiani e recuperare una valenza educativa?
In teoria visto che gli ascolti diminuisco si dovrebbero fare prodotti sempre più targetizzati. Poiché non devo fare il 25 cercando di prendere tutti, posso fare prodotti per uomini, donne e bambini. In teoria… Il paradosso è che i prodotti che vanno meglio sono nati alla fine degli anni ’90 come Montalbano, Don Matteo e Un medico in famiglia. Il panorama si sta evolvendo ma quello che fa 8 milioni sono cose pensate e costruite più di dieci anni fa e paradossalmente vanno sempre meglio. Don Matteo è un buon esempio. Secondo me, al di là dei valori cristiani, la vera questione educativa o meno è la considerazione dello spettatore che chi fa televisione ha. La visione dello spettatore nella Rai dovrebbe essere la visione di un cittadino. Io sto parlando ad un cittadino che paga il canone e fa parte di una comunità e devo rispettarlo in quanto cittadino e devo fornirgli, servirgli qualcosa che lo aiuti come cittadino in tutte le sue dimensioni- Una volta c’era ti insegno a leggere e a scrivere, con il maestro Manzi in Non è mai troppo tardi. Oggi può essere “ti aiuto nel capire la realtà, ti fornisco cultura, informazione”. Il problema è che si parte solo dallo spettatore come uno a cui vendere pubblicità le cose cambiano. Oppure se lo si considera un deficiente a cui va bene tutto, quello che tu fornirai sarà un prodotto di un certo tipo. E da lì che bisogna partire. Che tipo di spettatore ritengo di avere davanti? In quello che propongo, io faccio un patto con lo spettatore e devo rispettarlo.