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Il servo di Dio

Don Dolindo, la via dell’obbedienza e dell’amore

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Oggi, 19 novembre, ricorre l’anniversario della morte di don Dolindo Ruotolo. Inviso ai modernisti e sospeso due volte a divinis, seppe unire obbedienza alla Chiesa, amore alla verità e ai suoi stessi persecutori. Il tempo è stato galantuomo.

Ecclesia 19_11_2024

«Mi lasciasti mutilato nel mio Sacerdozio, o Santa Chiesa di Dio. Potato dalla tribolazione, nessuno potrà distaccarmi da te. Il mio Sacerdozio fiorì, proprio nell’umiliazione. E come edera dalle cento radici, si avvinghiò al tuo Sacerdozio eterno, Gesù». Questa è l’epigrafe che si legge nella chiesa napoletana di San Giuseppe dei Vecchi, nei pressi del sepolcro di don Dolindo Ruotolo (1882-1970), di cui oggi, 19 novembre, ricorre l’anniversario della morte.

Per don Dolindo il sacerdozio era un’autentica vocazione, il coronamento del desiderio che aveva fin da bambino, perciò è comprensibile che ad esso sono legate non solo le sue più grandi gioie ma anche le sue più grandi sofferenze. Sofferenze di natura morale, prima ancora che fisiche, sebbene nel servo di Dio furono acutissime sia le prime che le seconde, come presagito già dal nome (coniato dal padre), che significa “dolore”.

Ma il tratto che fa risplendere la figura di don Dolindo è il modo in cui lui visse queste sofferenze, unendo obbedienza alla Chiesa e amore per il prossimo, compresi i suoi persecutori. Esemplare, a questo proposito, il suo comportamento durante le due sospensioni a divinis che gli furono comminate dall’autorità ecclesiastica e che gli impedirono di esercitare il ministero sacerdotale per un totale di quasi vent’anni.

Particolarmente gravosa, a motivo anche della sua durata, fu la seconda di queste sospensioni, che si protrasse per ben 16 anni e mezzo. All’origine c’era l’invidia di una sua figlia spirituale che, sentendosi trascurata rispetto alle altre collaboratrici di don Dolindo, andò a confidarsi con padre Domenico Fenocchio, e praticamente calunniò il servo di Dio. Padre Fenocchio, antico avversario di don Dolindo, ottenne poi, per domenica 15 settembre 1918, un’udienza privata con Benedetto XV, al quale riferì che don Dolindo proponeva novità contrarie alla fede e aveva formato una sorta di setta. Non era vero, ma ciò valse la decisione da parte del Santo Padre di sospendere da subito la predicazione di don Dolindo – il quale, all’oscuro di quanto stava avvenendo a Roma, smise all’istante di predicare (in un episodio straordinario, che abbiamo già definito di “obbedienza mistica”) – e di ordinare un’inchiesta. Inchiesta che portò alla messa all’indice del Commento alla Sacra Scrittura – opera esegetica di grande valore spirituale che don Dolindo stava scrivendo in quegli anni – e appunto alla seconda sospensione a divinis.

«Mi sento come immerso nella Passione di Gesù», scrisse il servo di Dio dopo aver ricevuto la notifica di quella sospensione. «Ma io perdono e benedico!», aggiungeva qualche riga più avanti. E così, in effetti, fu, come poterono constatare quegli amici a cui capitava di sparlare dei responsabili della sospensione o che protestavano per la pietà che lo stesso don Dolindo manifestava verso i propri persecutori. «Tacete, quelli sono miei benefattori», diceva lui. E ancora, come poté constatare uno dei suoi primi accusatori, il già citato padre Fenocchio, che nel 1923, ammalato, confidò a don Dolindo «i tanti rimorsi» che aveva nei suoi confronti e gli chiese perdono. Da parte sua, don Dolindo gli rispose con grande carità, senza alcun desiderio di rivalsa e, anzi, gli fece capire che lo aveva già perdonato e gli manifestò di avergli sempre voluto bene. Si preoccupò anche di sollevarlo dal suo turbamento, indicandogli la medicina: «Lei non deve turbarsi, ma deve rimettere tutto a Gesù. Se lei volesse riparare quel che le sembra mal fatto, non potrebbe farlo senza Gesù. E allora, invece di tormentarsi così, dica a Gesù, umiliandosi e con piena fiducia: “Gesù mio, io metto nelle tue mani tutto quello che non ho fatto bene; trova Tu il modo di accomodarlo”. Lei, Padre, non si dia pensiero di altro».

Questo amore, don Dolindo, lo manifestava verso tutta la Chiesa. Per tutto il periodo della sua sospensione continuò ad andare giornalmente a Messa, sedendo tra i semplici fedeli, di solito all’ultimo posto, e andando a ricevere l’Eucaristia. Oltre al bisogno spirituale di nutrirsi di Cristo, desiderava che tutti sapessero che lui era e rimaneva un umile figlio della Chiesa, «santa, immacolata, indefettibile», come la chiamava.

Solo alla soglia dei suoi 55 anni, in seguito all’interessamento della beata Armida Barelli che aveva indotto Pio XI a istituire una commissione per rivedere il suo caso, don Dolindo fu pienamente riabilitato all’esercizio del ministero sacerdotale. E con lui, il Sant’Uffizio riabilitò anche la sua opera più importante, il Commento alla Sacra Scrittura.

Per tutta quella lunga attesa, don Dolindo chiaramente non poté fare tutte le cose sante legate al sacerdozio – dal celebrare Messa all’amministrare i sacramenti – eppure non si lasciò vincere dalla tentazione di ritenere che un’eventuale sua disobbedienza, un confidare più in sé stesso e nel “fare” a tutti i costi, avrebbe prodotto migliori risultati del confidare in Dio, che sempre – in definitiva – governa la Sua Chiesa. Piuttosto, continuò a perseverare nella fede, nella speranza e nella carità, unendo i suoi dolori a quelli di Gesù e facendo tutto il possibile nell’obbedienza, la quale, alla lunga, fa miracoli e quindi genera conversioni. Offriva penitenze e pregava, nella consapevolezza che «la più potente delle azioni è la preghiera», come recita la Novena dell’abbandono. Per questo oggi parliamo della sua santità di vita.

Una santità, quella di don Dolindo, che era ben chiara a un suo contemporaneo, già canonizzato, ossia san Pio da Pietrelcina. Nell’incontro che i due ebbero a San Giovanni Rotondo nel 1953, il frate cappuccino volle rassicurare don Dolindo, che si era recato da lui con due intenti precisi, di cui uno era quello di avere luce sulle tribolazioni che aveva patito nel suo cammino sacerdotale, a conferma di come le due sospensioni a divinis – per quanto all’epoca distanti ormai parecchi anni – l’avessero segnato profondamente. Dopo la morte di padre Pio (23 settembre 1968), nell’articolato resoconto scritto da don Dolindo su quell’incontro, si può leggere tra l’altro: «Alla domanda che volevo fargli sul mio cammino doloroso, provocato dai modernisti, rispose leggendo il mio pensiero: “Che ne vuoi sperare figlio mio”, e con gesto significativo della mano, soggiunse in dialetto: “Chille tènerie chélla capa… (Quelli hanno quella testa…)”». E poi lo stesso padre Pio, stringendo al cuore don Dolindo davanti ai propri confratelli, gli aveva detto: «Ascoltami bene! Tutto il Paradiso è nell’anima tua, c’è stato sempre, c’è e ci sarà per tutta l’eternità».



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