Domenico Savio e don Bosco, amici per la santità
Due anni dopo la morte di san Domenico Savio uscì la sua prima biografia, scritta da san Giovanni Bosco, che era convinto - insieme ai giovani del suo Oratorio - della santità del ragazzo. Una vita ricca di episodi edificanti, che ci mostra come il rapporto tra discepolo e maestro fosse tutto incentrato sulle cose di Dio.
Una favola che è verità. E la verità risuona sempre nella sua bellezza estetica e di sostanza. La favola che La Nuova Bussola vuole raccontare ai suoi lettori ha come protagonisti due santi, un sacerdote e il suo discepolo: san Giovanni Bosco e san Domenico Savio, del quale oggi ricorre la memoria liturgica. L’amicizia nella santità è uno dei più affascinanti capitoli della fede, della storia del cristianesimo: i due personaggi, infatti, seppur non coetanei, avevano l’uno per l’altro un affetto sincero, una complicità che nella fede cattolica - con una devozione speciale alla Vergine Maria - trovava forza e sostanza.
Quando, il 9 marzo 1857, Domenico Savio morì, don Bosco era talmente già convinto della sua santità che decise di pubblicarne subito la biografia. Conosceva i pensieri del ragazzo, le sue idee e i suoi sentimenti. Andato in cielo Domenico, don Bosco già pensava al “dopo”, alla fama di santità - già evidente per i giovani dell’Oratorio - che sicuramente si sarebbe diffusa viste le virtù di questo ragazzo così infiammato dalla luce e dal calore della fede. Savio moriva a quattordici anni e già per il suo maestro, amico e confidente, era santo.
“Vita del giovanetto Savio Domenico, allievo dell’Oratorio di San Francesco di Sales”, così recita il frontespizio dell’edizione “con appendice sulle grazie ottenute per sua intercessione” uscito dalla Tipografia Salesiana nel 1878: si trattava della quinta e ultima edizione curata da don Bosco, che aveva pubblicato la prima già nel 1859.
Il primo incontro tra i due santi è narrato nelle pagine del libro dallo stesso Bosco in queste significative righe: “Era il primo lunedì d’ottobre di buon mattino [lunedì 2 ottobre 1854, ndr], allorché vedo un fanciullo accompagnato da suo padre che si avvicinava per parlarmi. Il volto suo ilare, l’aria ridente, ma rispettosa, trassero verso di lui i miei sguardi. – Chi sei, gli dissi, onde vieni? – Io sono, rispose, Savio Domenico, di cui le ha parlato don Cugliero mio maestro, e veniamo da Mondonio. Allora lo chiamai da parte, e messici a ragionare dello studio fatto, del tenor di vita fino allora praticato, siamo tosto entrati in piena confidenza egli con me, io con lui. Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo spirito del Signore e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la grazia divina aveva già operato in così tenera età”.
Qualche giorno dopo, quello stesso giovane entrerà anche lui a far parte della grande famiglia dell’Oratorio di Valdocco. Era il 22 ottobre 1854 e, nell’ufficio di don Bosco, Domenico entrò un po’ timido: quel giorno non entrava semplicemente in una stanza ma nel cuore del santo piemontese. Varcare quella porta voleva dire, infatti, essere “uno dei ragazzi di don Bosco”, ossia cambiare totalmente vita. Quando si entrava nel suo ufficio, inoltre, tutti venivano colpiti da una scritta, un motto vero e proprio: “Da mihi animas, coetera tolle”, “Dammi le anime, prenditi il resto”. E Savio, commentando quell’iscrizione, disse al sacerdote santo: “Ho capito; qui non havvi negozio di danaro, ma negozio di anime, ho capito; spero che l’anima mia farà anche parte di questo commercio”.
È l’inizio di un’amicizia, di un rapporto incentrato e concentrato sulle “cose di Dio”. Il sacerdote piemontese durante gli anni di permanenza di Domenico Savio a Valdocco comprese sempre di più quanto il giovane fosse, già in vita, intento a salire i gradini del Paradiso. Sono tanti gli episodi dei doni carismatici che Savio aveva, tutti raccontati nel libro di don Bosco. A leggerli ci si commuove per quanta bellezza abbia compiuto Dio nella vita di Domenico.
Un giorno - per narrare uno di questi episodi - Savio entra di fretta nella camera di don Bosco e lo invita a seguirlo perché c’è “una bell’opera da fare”. Il sacerdote lo segue fino a quando si fermano davanti a un caseggiato. Savio invita il sacerdote a salire al terzo piano: lì c’è una donna che lo prega di confessare suo marito gravemente malato. L’uomo, lasciando la fede cattolica, aveva abbracciato il protestantesimo ma, al momento di spirare, voleva ritornare nel cuore della Chiesa: morire da buon cattolico. Un giorno, don Bosco chiese al giovane come potesse sapere che lì c’era un ammalato desideroso di confessarsi. Domenico lo guardò, in silenzio, per poi scoppiare in pianto. Quel silenzio e quel pianto dicevano tanto, anzi tutto.
Non ci stupisce, dunque, che nelle ultime pagine della biografia di Savio, redatta da don Bosco, troviamo queste righe: “Chiunque ha letto le cose che abbiamo scritto intorno al giovanetto Savio Domenico non si meraviglierà che Dio siasi degnato di favorirlo di doni speciali, facendo risplendere le virtù di lui in molte guise. Mentre egli ancor viveva, molti si davano sollecitudine per seguirne i consigli, gli esempi ed imitarne le virtù; molti anche mossi dalla specchiata condotta, dalla santità della vita, dall’innocenza dei suoi costumi, si raccomandavano alle sue preghiere. E si raccontano non poche grazie ottenute per le preghiere fatte a Dio dal giovane Savio mentre egli era ancora nella vita mortale”.
“Mi aiuti a farmi santo”, così aveva chiesto Domenico a don Bosco. E il sacerdote non disattese certo tale richiesta.