Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Cristo Re a cura di Ermes Dovico

NUOVA SCONFITTA

Divorzio breve, che combinano i politici cattolici?

A leggere i giornali ieri pareva d’essere tornati alle cronache di 41 anni fa, ai tempi del referendum per l’abrogazione della legge del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini che nel 1970 aveva legalizzato il divorzio. Il 59,3 per cento degli italiani (l'affluenza sfiorò l'88 per cento) bocciò il sì alla cancellazione della legge.

Editoriali 24_04_2015
13 maggio 1974: una coppia di sposi vota per il referendum sul divorzio

A leggere i giornali ieri pareva d’essere tornati alle cronache di 41 anni fa, ai tempi del referendum per l’abrogazione della legge del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini che nel 1970 aveva legalizzato il divorzio. Il 59, 3 per cento degli italiani (l'affluenza all'88%) bocciò il sì alla cancellazione della legge proposto dai Comitati civici di Luigi Gedda e Gabrio Lombardi. Oggi come ieri, sulla stampa, stesso laicissimo tripudio, stessi titoli di vittoria, stesse concitate emozioni davanti a un avvenimento di portata storica: l’inizio della fine dell’Italia cattolica e bigotta. Che si completerà poi, dieci anni dopo, con un altro referendum: quello sull’aborto. Lunedì  14 maggio 1974, sul Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini scriveva di Pannella e dei radicali e della loro «azione di portata storica e decisiva» che coincideva con «il loro essere scandalo». Ieri, giovedì 22 aprile 2015, la grande stampa è tornata d’un balzo a quei trionfi: “Sì al divorzio breve, ira dei cattolici” (La Repubblica), “Divorziare diventa più facile, una scelta d’avanguardia” (La Stampa), “Il nuovo divorzio dopo 45 anni” (Corriere della Sera), “Il nuovo divorzio è legge, 6 mesi per dirsi addio” (Il Giornale), “Mai più divorzio all’italiana” (Libero), stesso titolo per il Messaggero, addolcito però dalla foto in bianco e nero di Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli in bikini, sequenza cult del celebre film di Pietro Germi. 

Niente da dire, la notizia c’è tutta e pure la svolta è storica. Da oggi il divorzio breve è ufficialmente legge dello Stato: 398 voti favorevoli, 28 contrari e 6 astenuti, percentuali bulgare per una vittoria che alla Camera è passata senza polemiche e ostacoli, a parte i soliti quattro gatti a perdere (Eugenia Roccella, Giorgia Meloni, Maurizio Gasparri, Giuseppe Marinello, Alessandro Pagano e pochi altri): sei mesi per dirsi addio e buttare a mare come scoria inutile l’istituto del matrimonio. Un anno se si decide di ricorrere al giudice, ma è facile immaginare che le separazioni giudiziali saranno sempre meno. Non è ancora il super divorzio sprint, ma prima poi ci arriveremo: così il traguardo «di civiltà che trasforma l’Italia da Paese arretrato sui temi etici a Paese maturo e al passo con i Paesi europei» (dichiarazione di Alessandra Morani, Pd, e Luca D’Alessandro, Forza Italia) sarà finalmente tagliato. Rottamato il matrimonio, liberati mogli e mariti da impegni e promesse, il gioco delle coppie si fa più agile dinamico, legami prêt-à-porter e convivenze usa e getta. Il futuro nel nuovo panorama dei nuovi diritti, degli affetti indistinti, della parità del gender e dei desideri no limit. 

A favore hanno votato Pd, Sel, M5s, Scelta civica, Psi e Alternativa libera, Forza Italia e Area popolare hanno fatto dichiarazione di voto per il sì, ma lasciando ai deputati libertà di voto, mentre la Lega nord ha semplicemente lasciato libertà di coscienza. Un miracolo politico trasversale destinato presto a ripetersi.  Lo ha promesso il premier Renzi alle sue insofferenti minoranze interne: se l’Italicum verrà approvato senza sorprese, poi si procederà spediti sul resto. Dolcetti senza scherzetti: «Apriremo subito la stagione dei diritti civili»,  ha detto ai suoi, «con lo “ius soli” e le unioni tra coppie dello stesso sesso. E noi queste cose le faremo davvero, a differenza di quelli che c’erano prima». C’è da crederci: il sistema della legge di iniziativa parlamentare garantisce risultati a costo zero e senza rischi per il governo. Il 7 maggio scade il termine per la presentazione di emendamenti in commissione Giustizia al Senato, si comincerà procedere a tappe forzate per approvare almeno in un ramo del Parlamento entro l’anno il  disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili gay equiparate al matrimonio e la legittimazione dell’utero in affitto. Poi c’è la legge Scalfarotto contro l’“omofobia” già approvato alla Camera, la legge sull’ideologia gender nelle scuole e quella del Partito radicale sull’eutanasia. Raffica micidiale che farà fuori un bel po’ di quei laicissimi diritti costituzionali e valori non negoziabili. A cominciare dal diritto alla libertà di dissenso e critica, incompatibili con la dittatura dei nuovi diritti arcobaleno. 

Il voto sul divorzio breve dice, però, un’altra verità. Amara e politicamente devastante. Riguarda i cattolici italiani, ormai orfani di una decente e dignitosa rappresentanza politica.Ma sfida anche gli stessi parlamentari pro life e pro family, ridotti (se va bene) alla pura testimonianza di un’obiezione di coscienza. Dichiara Eugenia Roccella che lei ha votato no al divorzio breve, «anche se devo dare atto al gruppo di Ap al Senato di aver lavorato per migliorare il testo, e di aver evitato che venisse completamente cancellato l’istituto della separazione». D’accordo, i senatori del nuovo centrodestra avranno pur lavorato bene, evitato che il matrimonio scadesse definitivamente a burletta, ma è tutto qui il ruolo dei cattolici in Parlamento? Costretti alla semplice e disperata battaglia per la riduzione del danno, ultimi giapponesi in trincea solo per difendere il male minore? 

Quaranta associazioni e comitati che si battono per i diritti della famiglia hanno inviato una lettera aperta a Matteo Renzi per comunicargli il netto dissenso da ciò che prevederebbe l’eventuale legge Cirinnà, con l’istituzione delle unioni di fatto e delle convivenze (clicca qui). Giusta e sacrosanta mossa, ma è facile prevedere che il premier non farà una piega. Eppure l’iniziativa è necessaria e preziosa perché indicala strada e il da farsi in questi tempi di sconquasso.  L’opposizione all’annientamento del matrimonio e alla deriva gender non può che ricominciare da qui, dalla testimonianza di libere aggregazioni di cittadini, dalla loro mobilitazione pubblica e dalla loro capacità di premere sulla politica e sulle istituzioni. La Chiesa deve fare la sua parte (papa Francesco la sta facendo energicamente), ma senza una “resistenza” popolare, questo Parlamento nemico del matrimonio, dei bambini, della famiglia e delle libertà fondamentali continuerà a farci del male.