Divorziati risposati, la "ricetta" Galantino
Da parroco ha permesso la comunione a una donna in situazione «cosiddetta"irregolare"»: lo ha detto lo stesso segretario della CEI in una trasmissione tv per spiegare cosa significhi discernimento. E non è certo l'unico prete ad averlo fatto. Ma se loro sono i primi a disobbedire in base a quale criterio si aspettano l'obbedienza dei fedeli?
Una coppia di divorziati risposati si presenta al parroco. Questi fa un discorso e alla fine dice che nella loro condizione non possono fare la comunione. Ma poi si discute, si approfondisce ed ecco il risultato: misurandosi con le parole del parroco, lui matura la decisione di non fare la comunione, lei invece fa la comunione tranquillamente. Il parroco è don Nunzio Galantino, oggi vescovo e segretario della Conferenza Episcopale Italiana, e a raccontare questo episodio è stato lui stesso domenica scorsa in TV nel programma di RaiUno “A sua immagine” (clicca qui, e guarda dal minuto 12:30 in poi).
Monsignor Galantino – che era lì per spiegare l’esortazione apostolica Amoris Laetitia - ha raccontato questa storia per far capire cosa significhi discernimento, accompagnare le persone caso per caso: stesso discorso a stessa coppia, due “coscienze” diverse.
Si tratta di un episodio molto interessante, che sicuramente accomuna altri preti, alcuni dei quali non per niente – come don Nunzio – hanno colto l’occasione di Amoris Laetitia per fare outing. Finora la Chiesa ha infatti stabilito che un conto è accogliere le persone, un altro ammetterle all’Eucaristia. Davanti a situazioni oggettive di peccato come quella dei divorziati risposati (ma non è l’unica), se per vari motivi non è praticabile la separazione, l’accesso all’Eucaristia è possibile solo se c’è l’impegno a vivere in castità, come fratello e sorella. Come mi diceva un parroco in questi giorni, questo non significa vedere tutto bianco o nero, o scagliare la dottrina senza guardare negli occhi le persone: si è sempre valutato caso per caso, ma con dei criteri oggettivi. L’esempio di monsignor Galantino suggerisce invece che a cambiare non è l’ascolto e la condivisione delle fragilità delle persone (che ci è sempre stato), ma i criteri che si usano: se non c’è più un criterio oggettivo, alla fine tutto è lasciato alla coscienza (o opinione) del singolo.
A un comune fedele come il sottoscritto, il racconto non può non suscitare almeno due riflessioni:
1. La prima riguarda il valore dell’Eucaristia. Il Catechismo della Chiesa cattolica, dopo aver spiegato cosa è l’Eucaristia, invita a prepararsi adeguatamente prima di accostarvisi, anzitutto con un esame di coscienza, e cita San Paolo: «Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna (1 Cor 11,27-29)». E chiosa: «Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla Comunione» (no.1385).
L’adulterio è un peccato grave, e sotto questa fattispecie rientra certamente il caso dei divorziati risposati, qualunque sia il grado di responsabilità con cui si è arrivati a quella situazione. Infatti ricorda ancora il Catechismo che «l’Eucaristia non è ordinata al perdono dei peccati mortali». Davanti a un prete che non eccepisce al fatto che una persona in tale condizione si accosti alla comunione, i casi sono due: o non crede veramente che mangiare il corpo e sangue di Gesù in condizione di peccato grave porti alla propria condanna, o in fondo del destino di quella persona non gliene importa un granché.
Se un genitore vedesse il proprio figlio avvicinarsi pericolosamente con delle forbici a una presa elettrica lo bloccherebbe immediatamente anche in maniera brusca, sapendo delle conseguenze mortali di quel gesto. E non arretrerebbe neanche davanti a urla e strepiti del bambino che vuole provare quell’esperienza inconsapevole di ciò a cui va incontro. Non per obbedire a una regola, ma semplicemente perché vuole il suo bene, vuole che viva.
Nella Legenda Maior di San Francesco è raccontato un episodio della vita del santo, poi magistralmente dipinto da Giotto nel ciclo di affreschi che si possono ammirare nella Basilica superiore di Assisi: una donna era morta senza potersi confessare; San Francesco, tra lo stupore dei parenti, la fa resuscitare così che un prete possa raccogliere la sua confessione e poi lasciarla morire con l’anima in pace. Nell’affresco, sopra la donna, è raffigurato un angelo che scaccia via un diavolo con ali di pipistrello. A dimostrazione che nella Chiesa il peccato si è sempre preso sul serio; non per obbedire a una legge ma per amore delle singole persone.
2. Una seconda questione balza agli occhi. Ciò che monsignor Galantino e altri hanno detto in questi giorni lascia intendere che nel corso degli anni questi sacerdoti hanno tranquillamente privilegiato la propria opinione rispetto a ciò che la Chiesa ha sempre insegnato e raccomandato. A dire il vero non è neanche così sorprendente visto che da decenni nei seminari e nelle facoltà teologiche viene insegnato un magistero parallelo, lontano da quello ufficiale della Chiesa. E i risultati si vedono. Ma la domanda che ci poniamo è un’altra: se i primi a disobbedire sono certi preti, in base a quale criterio poi, questi stessi preti – magari diventati anche vescovi e cardinali - si aspettano l’obbedienza dei fedeli?